Ottocento anni sono una belle eredità da portare sulle spalle. Eppure a sentire padre Francesco Patton, custode di Terra Santa, sono un giogo leggero: “Al termine della sua vita, san Francesco disse ai suoi frati: io la mia parte l’ho fatta, la vostra ve la insegni Cristo”. Una terra lacerata dalla violenza, quella che descrive padre Patton, eppure è una terra che “ha dentro il sogno di Dio”. Oggi, al Meeting di Rimini, il custode parlerà su “800 anni in Terra Santa. Una eredità viva ora”. 



Padre Patton, otto secoli in Terra santa sono una storia più grande della forza degli uomini. 

Sì. Una storia che ci riporta alle origini del nostro ordine. La sua presenta in Terra santa risale a un primissimo pellegrinaggio del beato Egidio da Assisi, una sorta di viaggio d’avanscoperta nelle terre di Gesù che precede quello di frate Elia da Cortona, al quale si fa risalire storicamente l’istituzione della provincia. Siamo nel 1217. Due anni dopo venne anche san Francesco.



Una presenza costante lungo i secoli.

E da un certo punto in poi una presenza a nome della Chiesa stessa: nel 1342 Clemente VI formalmente affida con bolla papale ai frati dell’ordine di “dimorare continuamente nella chiesa del detto Sepolcro, e celebrare pure solennemente là dentro Messe cantate e Divini Uffici”. Da quel tipo di presenza si è sviluppata quello che la custodia è diventata. 

Che cosa è oggi la Custodia?

Da tre-quattro santuari siamo arrivati a una settantina, attorno ai santuari sono nate parrocchie, dentro le parrocchie sono nate scuole e opere sociali fino allo sviluppo degli ultimi anni, all’impegno nel dialogo ecumenico e interreligioso, verso i migranti, i profughi e i rifugiati che arrivano da tutto il Medio oriente.



Il titolo del Meeting suggerisce che l’eredità ricevuta dai padri possa e debba continuare a vivere. Lei che cos’ha ricevuto?

Sento di avere ricevuto dalle precedenti generazioni di francescani che hanno vissuto in Terra Santa la consegna di servire la Chiesa e il suo popolo, questa gente, con la medesima presenza e il medesimo servizio. Eredità però è un concetto analogo, per dirla con san Tommaso.

Che cosa significa?

Che l’eredità morale viene prima di ogni altra. E quest’eredità è nelle indicazioni di metodo che san Francesco ci ha dato: stare qui, mettendoci al servizio di tutti per amore di Dio e confessando di essere cristiani. Il resto sta a noi. 

Il successore di Pietro ha scelto il nome di Francesco. Cosa vuol dire per lei?

Significa un’attenzione particolare verso i poveri, ma anche per l’evangelizzazione e per il creato. San Francesco nel suo testamento scrive che quando nessuno gli spiegò che cosa doveva fare, il Signore gli rivelò che doveva vivere secondo la forma del santo vangelo. Questa vita, questa adesione al vangelo è la misericordia di Papa Francesco.

Per fare nostra l’eredità, dobbiamo riguadagnarla. Che cosa vuol dire per lei fare esperienza di questo?

Collego questo aspetto alla responsabilità che abbiamo nei confronti della missione che ci è stata affidata. Non possiamo stare seduti sugli allori. Quello che hanno fatto le generazioni precedenti è un’eredità, ma se non la facciamo nostra vivendo pienamente quella missione oggi, in poco tempo questa eredità si dilapida o si inaridisce. Al termine della sua vita, san Francesco disse ai suoi frati: io la mia parte l’ho fatta, la vostra ve la insegni Cristo. 

Più chiaro di così.

Ogni generazione francescana deve assumersi la responsabilità di vivere oggi quelle ragioni per cui siamo arrivati qui otto secoli fa. Penso che sia un compito che, in condizioni diverse e nel rispetto delle differenze, tocca ad ogni uomo.

Dove si annida la tentazione o l’errore?

Nello sbandierare i meriti del passato come se fossero una sorta di grazia buona per il presente. No. Ora tocca a questa generazione, a noi. 

Che cosa vede per il Medio oriente? Siamo in presenza di fatti che superano il problema palestinese e ci mettono in presenza di nuovi fronti, nuove vittime, nuove forze. 

Questa terra è bellissima, straordinaria, ma è anche di una grande complessità. Oggi invece vedo dappertutto una pericolosa tendenza alla semplificazione. Da uomo di speranza, posso dire che questa complessità c’era anche al tempo della rivelazione del primo testamento, eppure quel primo testamento ci parla del sogno di Dio di vedere tutta quella terra in pace: “il lupo dimorerà insieme con l’agnello”, “il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi” e “gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri”. Dobbiamo tenere conto della realtà, fatta di problemi, contraddizioni e violenze, ma questa stessa realtà contiene il sogno di Dio.

E quando pensa alla Siria pensa a questa profezia?

Dobbiamo avere il coraggio di sintonizzarci sulla lunghezza d’onda di Dio. Tutto il Medio oriente nel corso della sua storia ha conosciuto stravolgimenti, violenze e devastazioni tremende. Eppure la parola di Dio ci dice che il sogno di Dio è un altro. Se non entriamo in sintonia con Lui è impossibile che si realizzi qualcosa di positivo. 

Ci ha appena parlato di una terra di grande complessità. Prendiamo i cristiani. Cosa può dirci in proposito?

E’ una comunità estremamente variegata. C’è la comunità dei cristiani locali di lingua araba che è quella più numerosa, poi c’è una piccola comunità di cristiani di lingua ebraica; al tempo stesso c’è anche una grossa comunità di cristiani immigranti, lavoratori stranieri che vivono in Israele. Nella sola Tel Aviv sono più di 50mila. E comunque, nei vari ordinamenti civili ciò che fa difficoltà non è il tema del diritto dei cristiani ma la libertà di coscienza.