Il cardinale Mario Zenari è nunzio apostolico in Siria dal 2008, ben prima che cominciasse l’attuale sanguinosa guerra. Nel 2013 una bomba colpì la sua abitazione sventrando la sua camera da letto dopo pochi minuti che si era allontanato. Ha vissuto tutta la sofferenza e il dramma del popolo siriano in prima persona: “La sofferenza è uguale per tutti” ha detto a ilsussidiario.net in vista dell’incontro che terrà oggi al Meeting di Rimini “per qualunque comunità di fedeli. Quelli che hanno pagato il prezzo più alto in termini di morti sono stati i sunniti, ad esempio”. Adesso il cardinale si sta operando in un’altra delle sue iniziative coraggiose: aprire i tre ospedali cattolici esistenti in Siria a tutti, gente senza mutua, credenti musulmani piuttosto che cristiani, perché la situazione è drammatica. Con la guerra quasi tutte le strutture sanitarie della Siria sono infatti andate distrutte.
Eminenza, lei parlerà oggi al Meeting sul tema “Ospedali aperti”, ci dice di cosa si tratta?
In Siria esistono tre ospedali cattolici che operano da più di 100 anni, fondati ai tempi in maniera pionieristica con tanti sacrifici, ma ospedali che hanno sempre lavorato con molto apprezzamento da parte di tutti. Visitandoli un paio di anni fa mi sono accorto che non riescono più a lavorare al 100 per cento delle loro capacità, diversi reparti sono stati chiusi in seguito alle difficoltà causate dalla guerra.
La guerra ha colpito tutto e tutti, anche le strutture sanitarie.
La metà degli ospedali in Siria è fuori uso a causa dei combattimenti. Le file in quei pochi che ancora funzionano e le liste di attesa sono interminabili e la qualità dei servizi è ovviamente scaduta causa la guerra. Quindi ho detto: apriamo gli ospedali cattolici a tutti quelli che hanno bisogno. Molta gente non ha più lavoro e di conseguenza non ha un’assistenza della mutua. il 75 per cento della popolazione siriana vive nella povertà. Cerchiamo allora di aiutarli, che arrivi Pietro o che arrivi Mohammed, noi accoglieremo tutti e pagheremo noi le loro spese sanitarie.
Sarà un impegno molto gravoso dal punto di vista economico.
I costi di gestione sono enormi e aumentano sempre di più, l’elettricità il gasolio da riscaldamento sono aumentati tantissimo, il 75 per cento della popolazione, ripeto, vive nella povertà. Inoltre i due terzi del personale sanitario ha lasciato la Siria, per cui bisognerà reperire nuovi dottori e infermieri, fare corsi di formazione e rinnovare molti dei macchinari. Un impegno gravoso che speriamo sia sostenuto da tutti, anche in occidente.
Adesso che l’Isis sembra in gran parte sconfitto, lei pensa che una parte almeno dei milioni di siriani che hanno lasciato il paese torneranno a casa?
La guerra non è ancora finita, durerà mesi e mesi ancora. Secondo l’osservatorio dei migranti dall’inizio di quest’anno sono tornati in Siria circa 600mila persone, ma si tratta di coloro che erano fuggiti nei paesi più o meno vicini come la Libia o sulle coste siriane del Mediterraneo. Quelli che sono fuggiti in Europa non tornano, almeno per adesso. I primi rientrano perché in Libano la vita è cara e una volta che hanno visto che in alcuni dei loro villaggi la situazione è meno pericolosa, ritornano nella loro casetta semidistrutta. Ma è gente senza istruzione, scappata con l’asinello e la valigia sopra la testa, il loro sogno è sempre stato tornare al loro villaggio. Ma bisogna tener conto che per questi 600mila che sono tornati, altri 800mila quest’anno hanno dovuto lasciare città come Raqqa dove infuriano i combattimenti, sono profughi interni. Per cui la situazione è sempre drammatica.
Lei una volta ha detto che chi dice che l’inferno non esiste, deve venire in Siria e si renderà conto di cosa è l’inferno.
E’ così, ed è una sofferenza che ha toccato tutti senza distinzione di fede. I sunniti sono quelli che hanno pagato il prezzo maggiore. Per i cristiani è andata meglio, hanno fatto in tempo a fuggire prima che arrivasse l’Isis, mentre ci sono piccole zone a nord dove c’è una comunità di 700 persone con due sacerdoti francescani che sono stati lasciati vivere a patto che togliessero le croci dalle chiese, non suonassero le campane, le donne andassero in giro coperte. Una vita difficile certo, ma in termini di futuro la preoccupazione è più grande.
In che senso?
Non sappiamo come potrà sopravvivere una comunità cristiana che oggi in Siria è il 3 per cento della popolazione contro il 70 per cento dei sunniti. Quelli che pagano il prezzo sono sempre le minoranze e i cristiani oggi in Siria sono una piccola minoranza.