TERZA GUERRA MONDIALE. Nell’articolo di introduzione a questa serie di contributi che delineeranno i tratti principali dello scenario globale della sicurezza e delle relazioni internazionali, ho affermato che il campo in cui si gioca la partita è uno, fortemente interconnesso e interdipendente: l’intero pianeta. Ecco perché, nell’affrontare separatamente ciascun “quadrante”, bisognerà evitare di considerarlo alla stregua di un compartimento stagno: al contrario, la comprensione delle sue dinamiche sarà resa possibile dalla consapevolezza di quelle degli altri scenari, e viceversa.



Per cominciare analizziamo quello che chiameremo “Est”, intendendo l’intero fronte orientale dell’Europa, dai Paesi Baltici al Caucaso, passando per Ucraina, penisola balcanica e Georgia. Questa, infatti, è insieme al “Sud” (Mediterraneo, Africa settentrionale e Medio Oriente), l’area che pone all’Europa le minacce più pressanti; se, tuttavia, le crisi di origine meridionale sono all’ordine del giorno nei dibattiti nella nostra opinione pubblica, quelle che provengono da Oriente sono spesso sottovalutate, nella superficiale convinzione che non ci riguardino. Purtroppo, la realtà è ben diversa.



La gran parte dei Paesi che appartenevano all’Unione Sovietica e al Patto di Varsavia, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda hanno progressivamente aderito alla Nato e all’Unione Europea: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Slovenia e Croazia. Albania e Montenegro sono membri della Nato e hanno avviato le procedure per l’adesione alla Ue. Bosnia Erzegovina, Serbia, Macedonia e Kosovo, con dinamiche diverse, sembrano comunque destinati ad una progressiva integrazione euro-atlantica. Si è, insomma, assistito ad uno spostamento verso l’Occidente di quella che era stata per decenni la sfera di influenza russa. 



Mosca, invece, ha sempre accusato la Nato e l’Unione Europea di avere attuato una politica di espansione verso est, ignorando che i Paesi ex sovietici hanno tutti liberamente scelto la loro nuova collocazione in un ambito europeo ed euro-atlantico che rispondeva alle esigenze di sicurezza, di sviluppo, di libertà e di democrazia che l’occidente garantiva loro. 

La Russia, dopo la gravissima crisi interna seguita alla caduta dell’Unione Sovietica, si è progressivamente ripresa grazie agli enormi proventi della vendita di gas e petrolio, investendo risorse ingentissime per il rafforzamento delle forze armate, proprio mentre l’Europa riduceva in modo sensibile gli investimenti per la difesa. Ciò ha consentito a Putin di mettere in atto una politica di espansione di stampo neo imperiale, basato sulla narrativa della difesa del “mondo russo”, che ha progressivamente e gravemente destabilizzato l’intero fronte orientale.  

Nell’analizzare la politica estera russa, il punto di partenza è la comprensione della politica interna: il regime russo è fortemente oligarchico, e il potere sta fermamente nelle mani, da vent’anni, di Vladimir Putin. Un regime che non garantisce democrazia, rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani e che pregiudica seriamente un autentico sviluppo economico del Paese. Negli ultimi anni, infatti, la situazione di crisi interna si è fortemente accentuata, anche a causa delle sanzioni imposte dalla comunità internazionale e, soprattutto, del crollo del prezzo del petrolio, che costituiva oltre il 50 per cento del Pil russo.

In un tale scenario, dove il fermento rischia sempre di venire a galla e assumere dimensioni inaspettate, Putin ha scelto un atteggiamento molto “muscolare” in politica estera, proprio per mantenere alta la propria popolarità, nella consapevolezza di poter far gioco sull’ancor vivo sentimento nazionalista presente nel popolo russo.

Questa aggressività verso ovest (e verso il Mediterraneo) si manifesta con occupazioni militari e annessioni illegali causano i cosiddetti “conflitti congelati”, attraverso i quali il presidente russo tiene accesi molti fronti con l’Ovest, per trarne vantaggio a livello internazionale e, di riflesso, interno.

Dapprima, nel 2008, la Russia occupa militarmente due importanti province della Georgia, l’Abkhazia e il Sud Ossezia, tuttora controllate dalla presenza militare delle proprie truppe. L’Abkhazia comprende una parte importante dello strategico affaccio georgiano sul Mar Nero, il sud Ossezia consente alle truppe russe di posizionarsi a 60 km dalla capitale Tbilisi.

Questa occupazione appare quasi una prova generale della più importante operazione di annessione della Crimea, avvenuta nel 2014, a seguito di un discutibile referendum e, comunque, in violazione di qualsiasi norma del diritto internazionale. Il pretesto è la reazione alla rivolta di piazza Maidan a Kiev, dove il popolo ucraino invoca l’adesione all’Europa. Contestualmente, Mosca sostiene i ribelli filorussi nella regione del Donbass, la parte orientale dell’Ucraina confinante con la stessa Russia. Questa situazione di conflitto persiste tuttora e non accenna a diminuire di intensità.

A queste situazioni occorre aggiungere due realtà meno note: la Transnistria e il Nagorno-Karabakh. La Transnistria è una piccola provincia della Moldova, al confine con l’Ucraina, autoproclamatasi repubblica indipendente ma non riconosciuta dall’Onu: essa è militarmente controllata dall’esercito russo.

Il Nagorno-Karabakh è una provincia popolata da armeni ma giuridicamente collocata nel territorio dell’Azerbaijan. A sua volta si è autoproclamata indipendente ed è sostenuta dall’Armenia ma, ovviamente, è rivendicata dallo stesso Azerbaijan. E’ sede di un lungo e poco conosciuto conflitto che, dal 1992 al 1994, ha causato decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di profughi: questo conflitto non è però concluso e periodicamente si riaccende.

A nord, la Russia si comporta diversamente, provocando i vicini sul piano diplomatico: i paesi baltici, infatti, sono parte della Nato e un’azione militare avrebbe gravi ripercussioni, perciò i russi si limitano a “incidenti” come gli sconfinamenti aerei, fatti che però mantengono elevata la tensione.

Mentre la crisi ucraina è all’attenzione della comunità internazionale, che ha imposto a Mosca pesanti sanzioni e che gli accordi di Minsk — finora disattesi — dovrebbero regolarizzare, le altre situazioni sono assai meno note, specialmente presso l’opinione pubblica dei Paesi occidentali. Esse, invece, costituiscono chiari esempi di applicazione delle tecniche dei conflitti ibridi, come li abbiamo definiti nella nostra introduzione.

A questo vanno aggiunte l’inquietante presenza militare russa nell’enclave di Kaliningrad, dove sono appostati missili balistici di medio raggio che sarebbero in grado di raggiungere anche Berlino, la forte influenza di Mosca sulla dittatura di Lukashenko in Bielorussia e le manovre per convincere la Moldova a rinunciare alla adesione alla Ue. Questo consente alla Federazione Russa di mantenere un importante cuneo di pressione sul fianco orientale dell’Europa e della Nato.

A sud, nell’area del Medio Oriente e del Mediterraneo, Mosca ha cambiato marcia negli ultimi anni. In queste zone la presenza è molto varia, assumendo talvolta vesti militari, talaltra paramilitari, o ancora energetiche, economiche, politico-diplomatiche. Sfruttando infatti il vuoto creato dal ritiro obamiano, Putin ha piantato i paletti della propria tenda in primis in Siria, da cui ha costruito un asse regionale con l’Iran e — a momenti — la Turchia, per poi intromettersi in Libia con il sostegno ad Haftar; e molte partite sono ancora da giocare.

Spostandoci verso l’area dei Balcani occidentali — la ex Jugoslavia —, troviamo situazioni non meno preoccupanti, anche perché molto più vicine a noi. I Balcani occidentali sono strategici sia per il loro portato storico-culturale-etnico, sia per la loro attuale composizione sociale, che si caratterizza come una potenziale polveriera e che, dunque, necessita della stabilità che l’Occidente è in grado di fornire. La frammentazione seguita all’esplosione della Jugoslavia dopo Tito ha creato una serie di piccoli Stati, ciascuno caratterizzato dalla presenza di etnie diverse e da rivalità storiche con i vicini. Qui l’influsso russo appare meno evidente e si manifesta principalmente sotto forma di una forte azione di propaganda, volta a scongiurare l’avvicinamento alla Nato e alla Ue di Bosnia Erzegovina, Serbia, Kosovo e Macedonia. Le situazioni più delicate riguardano proprio questi Paesi, nei quali l’instabilità politica e le persistenti tensioni tra le diverse etnie lasciano spazio a potenze che si inseriscono prepotentemente nel tessuto economico e sociale, come l’Arabia Saudita, che di fatto sostiene le componenti islamiche e favorisce preoccupanti fenomeni di radicalizzazione.

E’ utile, da ultimo, segnalare che l’espansionismo cinese, del quale ci occuperemo nei prossimi articoli, sta raggiungendo l’intero est europeo, creando legami commerciali e diplomatici destinati, in un prossimo futuro, a cambiare ulteriormente gli equilibri geopolitici, sia per quanto riguarda i Paesi confinanti con la Ue, sia per diversi Stati già membri della stessa Unione.