Nella sua articolata esposizione sulle minacce alla sicurezza internazionale, Paolo Alli descrive l’Isis come “il terrorismo che pretende di farsi Stato”. Si può qui intravvedere quell’errore di prospettiva che tende a considerare il terrorismo un fine e non un mezzo. L’Isis non ha preteso di farsi Stato, si è fatto Stato nei territori occupati, raggiungendo quello che era dal principio il suo obiettivo. Di più, non un semplice Stato islamico governato dalla sharia, ma addirittura uno Stato al cui capo sono stati attribuiti titolo e funzioni di califfo. Per gli occidentali può sembrare un bizzarro anacronismo, ma per i musulmani significa riandare alle origini dell’islam e alla sua vittoriosa espansione. La guerra contro lo Stato islamico è stata, quindi, una vera e propria guerra, non un’operazione di polizia contro un gruppo terroristico.
Il successo dell’Isis non è dovuto agli atti di terrorismo e alle sue efferatezze: con queste non avrebbe conquistato un territorio così esteso, con città importanti come Mosul, mantenendone il controllo per tre anni. La sua ascesa in Iraq è dovuta in parte al citato richiamo a un periodo di grande splendore per l’islam e ha trovato un insperato aiuto nella pessima gestione del Paese da parte degli Stati Uniti dopo l’abbattimento di Saddam Hussein. In Siria, l’intervento degli americani contro il regime di Assad, con l’appoggio anche a milizie jihadiste, ha favorito la penetrazione dell’Isis che ha sfruttato anche qui il conflitto tra sunniti e sciiti.
Questi fattori critici sono tuttora presenti. Mosul è stata liberata da una coalizione frammentata secondo linee religiose, sunniti verso sciiti, ed etniche, arabi verso curdi. Se queste divisioni sfociassero, come si teme, in conflitti aperti, si ricreerebbero le condizioni per una ripresa di potere da parte dell’Isis. Senza una stabilizzazione in tempi brevi della situazione in Iraq e una altrettanto urgente cessazione della guerra in Siria, la sconfitta definitiva dell’Isis si dimostrerà una pia illusione.
Se il terrorismo è uno strumento per raggiungere ben precisi fini, la lotta contro di esso deve articolarsi su tre fronti: gli atti terroristici e i loro immediati esecutori, i loro mandatari e lo scopo finale cui vogliono giungere. Il primo livello è quello attuale, basato sulla prevenzione di attentati, lo scambio di intelligence, il controllo del territorio. Una lotta improba proprio per le caratteristiche del terrorismo, che colpisce quando, dove e come vuole, possibilmente nel modo più imprevedibile. Tuttavia, per citare Mao, come il guerrigliero anche il terrorista ha bisogno “di acqua in cui nuotare”. Il controllo e la prevenzione devono perciò essere estesi a tutti quegli ambienti che sono o possono essere fiancheggiatori del terrorismo. Ciò comporta il rischio di limitazioni alle libertà individuali fonte di ulteriori conflitti e instabilità.
E’ quindi essenziale identificare e contrastare i mandatari ultimi del terrorismo e i loro obiettivi. Nella fattispecie del terrorismo islamico, i nomi che più ricorrono sono quelli di Isis e al Qaeda. Pur nelle differenze di impostazione, l’obiettivo comune è l’espansione con ogni mezzo, primariamente la violenza, dell’islam nella sua versione più fondamentalista. Un’espansione che, partendo dai Paesi a maggioranza musulmana, coinvolgerà anche i Paesi con una presenza musulmana, anche minoritaria, essendo lo scopo ultimo un mondo interamente islamico. In questa prospettiva, il terrorismo è uno strumento che può accelerare il raggiungimento dello scopo.
Nei Paesi a maggioranza musulmana un potente strumento di islamizzazione è l’imposizione generalizzata della sharia, che provoca una progressiva riduzione della presenza di altre confessioni religiose, fortemente limitate quando non impedite nella loro libertà di espressione. Per gli altri Paesi, un ruolo importante gioca l’immigrazione, e ciò ancor prima dell’esodo di massa di questi ultimi anni. Il risultato si è visto da tempo in Paesi aperti all’integrazione, come la Gran Bretagna e la Svezia, dove si sono creati dei veri e propri ministati islamici, da cui il termine Londonistan. D’altronde, l’arma dell’immigrazione e della demografia è stata apertamente brandita dal Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ha invitato i suoi compatrioti in Europa a fare più figli per diventare “il futuro dell’Europa”.
L’Europa è nata sulle rovine di un Impero Romano vero e proprio crogiuolo di etnie, culture, religioni, e per secoli è stata sottoposta a invasioni, per lo più non pacifiche, che hanno aumentato questa mescolanza o, se si vuole, meticciato di culture. Tutto ciò si è svolto con una comune base di fondo costituita dal cristianesimo, da cui sono sorte anche le correnti di pensiero e i movimenti politici che hanno finito per combatterlo. Quale sarà il sottofondo unificatore del prossimo “meticciato”: il cristianesimo, il secolarismo o l’islam? Se ha ragione Erdogan sarà il caso di cominciare a pensare a quale tipo di islam dovremo guardare, una domanda particolarmente rilevante anche per gli stessi musulmani europei. Almeno fino a che possono contare sulla protezione della nostra civiltà di “infedeli”.