Una realtà complessa e di difficilissima interpretazione di cui in occidente si conosce poco o nulla: così Francesco Sisci, profondo conoscitore del mondo orientale, definisce il Myanmar, in questa conversazione con ilsussidiario.net. Una situazione che ha visto le Nazioni Unite nelle ultime ore denunciare ufficialmente “la pulizia etnica” in atto nei confronti della minoranza islamica del popolo Rohingya, mentre si raccolgono firme per chiedere la restituzione del premio Nobel per la pace da parte dell’ex pasionaria Aung San Suu Kyi. “Quello che molti non sanno è che la repressione nei confronti della minoranza islamica è solo una delle molteplici in atto nel paese da decenni, ad esempio nei confronti dei cristiani di cui nessuno parla” spiega Sisci “e di molte altre minoranze. Aung San Suu Kyi si trova tra l’incudine e il martello”. In questo quadro di totale destabilizzazione si inserisce, il prossimo 27 novembre, la prima visita di un Papa in Myanmar, “una visita di portata enorme”.



Si parla del popolo Rohingya come della minoranza più perseguitata al mondo, e non da oggi. Quali le ragioni di questo accanimento?

Bisogna tenere conto e conoscere la realtà del Myanmar. Dal punto di vista religioso è un paese a maggioranza buddista, poi ci sono almeno una decina di minoranze tra cui musulmani, cristiani cattolici ed evangelici, animisti. I Rohingya sono solo una delle minoranze a cui non è riconosciuta la cittadinanza, ce ne sono molte altre. 



Però verso di loro c’è particolare accanimento da parte della maggioranza buddista, perché?

Il loro caso è eclatante perché in altre parti del mondo abbiamo buddisti perseguitati e islamici persecutori e qui accade il contrario. Va però detto che non tutti i buddisti birmani sono fanaticamente contro questo popolo, che è visto da chi li combatte come una eredità dell’impero coloniale britannico. Di fatto i Rhoingya sono un’eredità di quell’impero quando tra Myanmar e il vicino Bengala a maggioranza islamica, non c’erano frontiere. Ciò dimostra come sono le ideologie a usare le religioni per scopi politici e non il contrario come si dice oggi.



Lei però ha parlato di una maggioranza buddista e birmana che vuole combattere ed eliminare tutte le minoranze. Quale il movente politico?

Da quando l’attuale Myanmar ha ottenuto l’indipendenza, la maggioranza birmana, che poi è circa il 55-60 per cento della popolazione, ha cercato di prevalere sulle altre etnie e religione che potesse mettersi in mezzo al processo di nascita di una nazione nuova con però delle spinte anche contrarie. Lo stesso cambio di nome e il ritorno all’antica denominazione di Myanmar voleva dimostrare questo intento, i Birmani pur maggioritari rispettavano gli elementi multi etnici della nazione.Oggi lo scopo è quello di trasformare la struttura stessa dello stato, creando un paese dove i birmani prevalgano. Quel 40-45 per cento circa di minoranze occupano però circa il 60 per cento del territorio, ed è ovvio che diano fastidio. In questo senso i Rohingya sono una delle minoranze più facile da marginalizzare.

Se tutto questo durante il regime militare durato decenni poteva apparire giustificato dalla logica dittatoriale, oggi con il premio Nobel per la pace presidente del partito di governo e ministro degli esteri, appare però più difficile da capire. Chi è veramente Aung San Suu Kyi, che definisce i musulmani dei terroristi?

In Occidente abbiamo spesso questa idea facile, suggerita dai film hollywoodiani, secondo la quale una volta mandato via il cattivo arriva il buono. La realtà non è così e Aung San Suu Kyi lo dimostra. Bisogna tener conto che è la figlia di uno dei militari padri fondatori del paese e che è di etnia birmana. E’ arrivata al potere non cacciando i militari a pedate, ma con un compromesso. Poi comunque non tutti i birmani sono poi filo-militari… insomma è un paese con un carico di problematiche enormi in cerca di un’identità.

Lei è d’accordo con i molti che chiedono che restituisca il premio Nobel?

No, non sono d’accordo. Sta facendo dei tentativi, alcuni buoni altri meno, e cammina sul filo di un rasoio molto pericoloso. 

In questo quadro si incastra la prossima visita del Papa. Che effetto potrà avere? Francesco ha già chiesto diverse volte che cessi ogni violenza contro i Rohingya. 

Non sarà una visita facile, ma certamente sarà molto significativa. E’ la prima visita di un papa in quel paese, ed è una visita che chiaramente guarda a Cina e India, i due giganti dell’Asia che Francesco vorrebbe moltissimo poter visitare. Ricordiamo poi che il papa recentemente ha nominato un cardinale nel Laos. Sono segnali dell’attenzione di questo pontefice verso un mondo in cui i cattolici sono una piccolissima minoranza, dunque l’apertura di un orizzonte nuovo per la Chiesa, di missione e di dialogo. 

Cosa dirà il papa a questo governo?

Quello che ha detto in Colombia: trovare una via di pace, chiudere con l’odio reciproco, smussare quanti più angoli possibile oggi. Questo viaggio è una sfida epocale perché si proietta verso Cina e India che saranno lì a guardare. Rispetto alle altre sfide che questo papa ha intrapreso in paesi di tradizione cattolica come Cuba o Venezuela, o in Medio Oriente dove la presenza cristiana è piccola ma storica, qua siamo in una terra nuova, una sfida del tutto inedita.