Le critiche degli avversari a Donald Trump si sono ormai trasformate in una vera e propria guerra, oltretutto bipartisan, vista l’ostilità di una parte rilevante dell’apparato del suo stesso partito. Trump ha ceduto a molte pressioni e contraddetto diversi punti del suo programma, perdendo così consenso tra i suoi elettori, senza che ciò diminuisse l’asprezza degli attacchi. Diventa così sempre meno lontana l’ipotesi di un suo impeachment o di sue dimissioni per evitarlo. Questa guerra sta danneggiando il Paese, in una grave crisi istituzionale mentre deve fronteggiare rilevanti cambiamenti negli assetti mondiali.



Questa situazione non è completamente spiegabile con la sostanziale estraneità di Trump all’establishment politico ed economico e la sua mancanza di “professionalità” politica, aggravata dal suo modo di porsi e di parlare istrionico e sopra le righe. Le sue presunte collusioni con la Russia, che hanno portato Hillary Clinton a definirlo “burattino di Putin”, dovevano impedirne semmai la candidatura, ma ora rischiano di essere più dannose per gli Stati Uniti che per lo stesso Trump.



Il problema reale sottostante allo scontro va al di là della stessa persona del presidente ed è dato dalla contrapposizione di due visioni divergenti sul ruolo che gli Stati Uniti devono esercitare nel mondo. Dietro gli slogan “America First” o “Make America Great Again” vi è una strategia politica che si richiama alla posizione che ha spesso caratterizzato gli Stati Uniti, almeno fino alla seconda guerra mondiale, il cosiddetto isolazionismo. Trump, peraltro, non si può definire un isolazionista tout court, perché sembra accettare l’impossibilità di isolarsi dal resto del mondo. Ciò che Trump mette in discussione, con modalità rudi e talvolta contraddittorie, è che gli Stati Uniti debbano interessarsi del mondo prima che dei propri interessi. Questa premessa è all’origine della richiesta agli altri Paesi della Nato di una maggiore partecipazione alle spese della difesa comune, come del ritiro da varie convenzioni internazionali in nome della propria autonomia di decisione.



Dietro questa posizione vi è la constatazione che il mondo è diventato multipolare con l’inevitabile conseguenza di un ridimensionamento della superpotenza americana, come descritto in un precedente articolo. L’accettazione di questo ridimensionamento è per Trump facilitata dal suo scetticismo verso quell’eccezionalismo degli Stati Uniti che ha dominato la politica americana dalla fine del 1945. In forza di questo eccezionalismo gli Stati Uniti si sono assegnati, quasi in modo religioso, la missione di espandere i valori di libertà e democrazia la cui espressione più alta si manifesta, appunto, negli Stati Uniti.

Da questa missione deriva la necessaria supremazia degli Stati Uniti ed è proprio questa che il “deep state” non vuole abbandonare, trovando un alleato nei grandi gruppi multinazionali sostenitori della globalizzazione. La globalizzazione fornisce loro estese opportunità che li rende piuttosto freddi sul programma di Trump di riportare produzione, e occupazione, in patria. Questi gruppi sono alleati naturali di chi continua a vedere negli Stati Uniti il guardiano del mondo e si affiancano così al braccio militare come strumento della suddetta “missione”.

Le divergenze sono quindi sulla terapia, non sulla diagnosi, perché anche i sostenitori dell’eccezionalismo riconoscono il fallimento della Pax Americana dopo la caduta del Muro. Le guerre seguite all’11/9 hanno lasciato Paesi in grave disordine, come Afghanistan, Iraq, Siria, Libia per citare i principali, e lo stesso esito hanno avuto le varie Primavere, arabe e non. La soluzione però viene trovata in un rafforzamento di questa fallimentare strategia e ogni Stato che non vuole riconoscere la supremazia statunitense viene visto come un pericolo per gli Stati Uniti. Per ora i nemici espliciti sono identificati in Russia e Cina, ma tra breve potrebbero diventare l’India o la stessa Europa, se non accettassero la supremazia americana.

Il problema va perciò ben al di là della pur discutibile persona di Donald Trump e riguarda l’assetto futuro del mondo. Un’analisi oggettiva della situazione attuale non lascia molto spazio a chi vorrebbe tornare alla indiscussa supremazia degli Stati Uniti. Lo stesso rapporto a cura del Pentagono, nel chiedere rafforzamento e maggiore autonomia per sé, definisce lo scenario come “post-primacy reality”, cioè la realtà dopo la perdita di supremazia da parte americana. Questa strategia ricorda la politica del “fin sull’orlo del burrone” ed è estremamente pericolosa nella situazione attuale, ancor più delle minacce del “folle” di Pyongyang.