A Parigi si sono recentemente incontrati i capi di stato di quattro paesi europei – Italia, Francia, Germania e Spagna – e tre paesi africani – Niger, Ciad e Libia. Un evento storico eccezionale e che non ha precedenti dopo la seconda guerra mondiale. La giustificazione formale dell’ incontro è stata quella di rito, ossia quella che tutti si attendevano dopo anni di conflitti intraeuropei sulla questione dei migranti e il disgraziato esito dell’accordo di Dublino.



Il tema era l’immigrazione. L’obbiettivo: raggiungere un’intesa sulla gestione dei flussi di persone che arrivano in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. Di qui le conclusioni: sostenere i programmi di sviluppo europei destinati ad alcuni stati africani per creare nuovi posti di lavoro. Sostenere il Ciad e il Niger,  principali paesi di transito per i migranti che partono dalle coste libiche al fine di implementare controlli alle  frontiere. Di grande impegno la decisione di introdurre un sistema che permetta ai migranti di sottoporre la loro domanda di asilo o altre forme di protezione internazionale direttamente in Ciad e Niger, in modo da scoraggiare il viaggio di persone che non hanno possibilità di ottenere lo status di rifugiato in Europa.



Assistevano all’incontro l’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri Federica Mogherini, il presidente nigerino Mahamadou Issoufou, il presidente ciadiano Idriss Derby Itno e il primo ministro del governo libico di unità nazionale Fayez al Serraj, che controlla con instabile successo la zona di Tripoli.

Dicevo dell’eccezionalità dell’incontro e della sua rilevanza per un futuro non tanto delle immigrazioni, ma dell’Africa come continente in sé. Dopo il crollo degli imperi europei in Africa, è la prima volta che un gruppo significativo di nazioni europee discutono di azioni comuni che non siano quelle dell’antiterrorismo e quindi legate al lavoro delle intelligence delle rispettive nazioni o dei consueti interventi umanitari. Si parla chiaramente della necessità dello sviluppo economico e civile e così facendo ci si inserisce in un processo che è di fatto iniziato non in Europa, ma nel cuore dell’Africa dopo il genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu in Rwanda nel 1994 e dopo le continue guerre civili e tribali che hanno sconvolto la Repubblica Democratica del Congo, sino agli ultimi scontri che segnano questi tempi di stallo proprio nel Congo Democratico, dove il presidente Kabila pur sconfitto nelle ultime elezioni, si ostina non lasciare il potere nonostante il grande impegno di mediazione della Chiesa cattolica impegnata tanto nel processo di transizione quanto nel processo ben difficile di pacificazione. Il Rwanda era e rimane il punto di riferimento per tutte le parti in lotta per la mediazione che Kigame, il leader dei Tutsi e dominatore incontrastato di uno stato tanto piccolo quanto militarmente potente, il Rwanda, riesce sempre a ottenere con il negoziato, oppure con la guerra nel continuo riaccendersi di guerre inter-tribali e per procura che sconvolgono da sempre il Congo Democratico. 



L’accordo europeo e africano è significativo per gli attori coinvolti. In primo luogo la Francia. Essa è l’ unica nazione imperiale che tale è rimasta in tutti i settant’anni e più di cambiamenti intervenuti dopo la seconda guerra mondiale. Essa non solo non ha dismesso il suo impegno imperiale, ma lo ha vieppiù ampliato. La manifestazione  più evidente di ciò risiede nella continuità monetaria, ossia nella permanenza del  Franco centroafricano (Cfa) che unisce quattordici stati (Benin, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Niger, Gabon, Senegal, Togo). Una moneta creata, questo Cfa, il 26 dicembre del 1945 al momento della ratifica da parte della Francia degli accordi di Bretton Woods. A quei tempi la sigla indicava il franco delle colonie francesi africane, perché la maggioranza di questi paesi sono stati colonie francesi (con le eccezioni della Guinea Equatoriale, ex-colonia spagnola, e della Guinea-Bissau, ex-colonia portoghese). Alcuni di questi stati (Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) sono riuniti nell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa), mentre i restanti (Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Gabon, Guinea Equatoriale e Ciad) sono riuniti nella Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (Cemac). 

Non stupisce, allora, che la Francia sia la potenza regionale che non solo amplia il suo disegno imperiale, ma che con questo accordo coinvolge di necessità nel futuro africano anche l’altra grande potenza europea ossia la Germania, con cui, con l’avvento di Macron, vuole condividere (competendo naturalmente nello stesso tempo) i destini di un’Europa che si è vieppiù scoperta intimamente legata ai destini dell’Africa. 

La presenza dell’Italia è giustificata dal ruolo che essa ancora svolge con intelligenza, ma con grande difficoltà, in Libia, non riuscendo a unificare nel suo disegno anche la Cirenaica, che — tramite il generale Haftar — continua a essere fortemente influenzata da un Egitto sconvolto da una lotta di potere senza esclusioni di colpi, come dimostra per certi versi anche la vicenda Regeni, e dalla Russia. Insieme alla Russia, è la Turchia a condividere la grande ambizione di sistemazione dell’intera area mesopotamica e di quella nordafricana. Un disegno non in linea con gli storici accordi del 1916 che troppi si illudono di rifondare oggi, ignorando il crescente peso sia della Turchia sia della Russia sia dell’Iran in un plesso geopolitico fondamentale per il controllo dell’ heartland e quindi dell’Eurasia. Esso inizia alla foce dell’Indo e termina nel caldo mare siriano. La presenza spagnola è di rito in questo contesto per l’inessenziale ruolo che la Spagna ormai svolge nell’area.

Ma l’interesse della Francia è di non destabilizzare — più di quanto già non lo sia per via della guerra civile islamica — il Centro Africa sub sahariano, dove essa intende rafforzare il suo potere per giungere, attraverso le nazioni non a caso coinvolte nei negoziati e soprattutto attraverso la via del Mali e del Fezzan, giù giù sino al Camerun e al Gabon, che aprono le porte del Congo o meglio dei “Conghi” che sono sottoposti a una conflittualità che pare essere senza fine. 

Anche dopo la fine della guerra “continentale” che durò dall’agosto del 1998 all’agosto del 1990 e che ebbe il suo epicentro nella Repubblica Democratica del Congo ma che interessò, oltre al sempiterno Rwanda, tutti gli stati con esso confinanti, l’instabilità nell’area è cronica e la presenza di truppe non solo più africane e francesi ma anche tedesche e italiane può essere decisiva. Oltre alle truppe francesi (decine di migliaia attive appunto dal secondo dopoguerra in più o meno dispiegata potenza) può essere decisivo questo coordinato intervento per consolidare il potere francese concedendo alla Germania uno spazio di intervento sino a oggi non previsto. La Germania, del resto, è il solo paese che può pensare di avere le risorse per impegnarsi in un ritorno africano in un’area di intervento che non potrà non iniziare dalle ex colonie tedesche otto-novecentesche, non a caso confinanti con il Congo democratico.

La questione pone altresì all’ordine del giorno il disegno della forza armata europea, che a questo punto non potrà non essere la logica conseguenza di questo accordo. 

Sappiamo tutti che una forza militare europea è in profonda contraddizione con l’esistenza stessa della Nato e non dobbiamo rifarci alla storia dei rapporti sempre difficili tra Usa e Unione Europa per comprenderlo. Sin dall’inizio del concepimento di quest’ultima i conflitti tra Usa ed Europa, in veste soprattutto francese con De Gaulle, sorsero proprio in merito alla questione della Nato. La stessa esistenza della Nato è posta in discussione o sarebbe posta in discussione dalla creazione di un esercito europeo. Occorre ritornare alla vicenda dell’ installazioni dei missili Salt in Europa nel 1980 su iniziativa nordamericana nonostante le resistenze europee, per comprendere tutte le implicazioni della vicenda. Implicazioni che sono al centro del recente distacco degli Usa dalla Germania, con il conseguente viaggio di Trump in Polonia e la rivendicazione di un ruolo Usa in funzione antirussa.

Il problema è di enorme complessità. Questo spiega perché, non essendosi firmato una trattato che fosse una sorta di nuova Versailles o di una nuova Yalta dopo il crollo dell’Urss, la Russia post-sovietica fa ancora paura più agli Usa che all’Europa dopo il crollo del comunismo.

La Nato è divenuta, a questo punto del disordine internazionale seguito al mancato trattato post-crollo dell’Urss, una delle giustificazioni essenziali per garantire agli Usa un controllo sull’Europa che va dal tema del commercio mondiale a quello della difesa contro i nemici della democrazia, in quella sorta di guerra all’errore che dopo il 2001 Bush junior ha inaugurato nel mondo, non a caso iniziando dall’Afghanistan, che dell’heartland è l’avamposto cruciale. E non a caso, tra un litigio antitedesco e una diffidenza francese, Trump all’Afghanistan sta ritornando.

L’Italia è un vaso di coccio tra vasi di ferro. Della grande questione mondiale che sta entrando in gioco (il dominio del mondo attraverso il dominio dell’Africa, come il pensiero ottocentesco aveva bene inteso durante la prima colonizzazione capitalistica) all’Italia importa decisamente soprattutto la sopravvivenza delle sue radici nordafricane in Libia e Egitto in primis. Ma — ecco il punto — l’unico alleato che può far sopravvivere l’Italia, è l’alleato Usa. Di questa necessità vitale per l’Italia troppo spesso ci si dimentica. Guai a cedere alle sirene dell’esercito europeo e delle conseguente strategie e spese europee in armamenti: sarebbe la nostra fine e il vaso di coccio andrebbe in briciole. 

Ma questo è ciò che vogliono francesi e tedeschi, con le dovute maniere e i loro eleganti rappresentanti italiani. 

Con la storia, però, non si scherza. E nella storia non si usano le buone maniere.