Occorre “ripristinare relazioni diplomatiche con la Siria e ridiscutere l’embargo in Parlamento”. E’ questo, secondo Mario Mauro, senatore di Forza Italia ed ex ministro della Difesa, il compito che spetta all’Italia nelle sue relazioni — attualmente interrotte — con la Siria, devastata da una guerra che dura dal 2011, da quando sul suolo siriano è stata innescata una “primavera araba” combattuta da milizie jihadiste al servizio della monarchia saudita e degli interessi americani. Mauro, insieme a Paolo Romani, ha concluso domenica scorsa una missione in Siria di alcuni giorni, tra Damasco e Aleppo, nei quali i due esponenti del centrodestra hanno visitato le zone del fronte, i campi profughi di Ebn Jouber e di Gibreen e incontrato i massimi rappresentanti delle istituzioni religiose e politiche siriane, compreso il presidente Bashar al Assad. Il paese sta ancora combattendo la guerra, ma guarda alla pace.
Senatore Mauro, lei è appena tornato dalla Siria. Con quali occhi ha guardato a quella terra martoriata?
Con gli occhi dei bambini. Con gli occhi del piccolo Omran, prima strumentalizzato a fini di propaganda politica dai White Elmets vicini ad Al Nusra poi rincorso dal regime perché raccontasse la verità.
Quale verità?
Quella siriana certo non è solo una guerra civile. È una guerra regionale in cui le potenze del Golfo cercano di imporre sulla pelle dei siriani nuovi equilibri in Medio oriente. Arabia Saudita ed Iran hanno schierato sul terreno i loro alleati, da Hezbollah libanese ai foreign fighters filo-sunniti. Qatar e Turchia complicano la partita cercando di gareggiare con loro per l’egemonia nella regione. Giordania e Libano subiscono la destabilizzazione della Siria e sono invase dai profughi. Israele forgia in questa guerra la sua strategia anti-Iran. Russia e Stati Uniti muovono con perizia gli uni, e con altalenante spregiudicatezza gli altri le loro pedine in attesa della mano che gli farà vincere la partita. Ma di tutto questo, Omran ed Heil e Abdallah (i bambini delle foto) non sanno nulla.
La “grande politica”, si fa per dire, e i popoli che la subiscono.
La storia dei potenti non incontra mai quella degli umili se non per travolgerli. Come ad Aleppo. Come ad Homs o a Raqqa. Per questo siamo andati in Siria.
Ecco, siete andati in Siria perché?
Perché la nostra opinione pubblica possa comprendere quello che qui accade non con gli occhi della propaganda pro o contro Assad. Pro o contro questo o quello dei grandi players del dramma siriano. Ma con gli occhi dei bambini che chiedono di colmare con la verità e la pace il dramma della guerra e del vuoto terribile che essa porta nel destino di una generazione.
E’ un dramma che dura da sei anni. Il suo, di fatto, è un appello accorato. A fare cosa esattamente? L’Europa è inerte, se non peggio.
Questi giudizi vogliamo che orientino la politica di paesi come l’Italia, alleata storica e credibile degli Stati Uniti, che in questo teatro hanno alimentato il fuoco demoniaco del fondamentalismo islamista. Con occhi da bambino ce lo ha detto l’arcivescovo greco melchita cattolico di Aleppo, Jean-Clement Jeanbart: “noi cristiani di Siria non siamo pro-regime ma chi pensa di sostituire Assad con i tagliagole islamici non sa cosa sta facendo”. Con occhi da bambino ce lo ha ripetuto il gran mufti di Siria, Ahmad Badr El Din Hassun: “non c’è guerra civile ma guerra tra civiltà e barbarie”.
Cosa si deve fare?
Dialogare. Lo ha compreso il governo e lo ha compreso il ministro della Riconciliazione, che ha visto il figlio cadere sotto i colpi dei miliziani di Al Nusra. Lo sanno bene quanti hanno intrapreso in questi anni la strada del ripensamento e della collaborazione per una Siria migliore. Ma questo dialogo riuscirà se protagonisti saranno i siriani. Tutti. Siriaci, arabi, curdi, sunniti, alawiti, cristiani, uomini del Baath. E se le potenze del mondo non pretenderanno di sacrificare il futuro di questi bambini ai loro giochi di potere.
Dialogare con chi esattamente?
Al tavolo di Astana si sono seduti, fatta eccezione per l’Isis e al Nusra, il 90 per cento delle formazioni armate che sul terreno stanno continuando a combattere contro Assad. Una ragionevole speranza è che dalle armi si passi a un confronto politico, per quanto serrato. Dal mio punto di osservazione, per quello che ho visto, posso dire che oggi c’è la possibilità di una evoluzione politica della crisi.
La guerra però continua.
Certo, la guerra è ancora in corso e senza l’aiuto di Putin il risultato sarebbe ben diverso. La Siria sta combattendo una guerra durissima, di tanti suoi rappresentanti istituzionali, politici, religiosi di tutte le confessioni contro le tante forme di terrorismo e di estremismo salafita e wahabita presenti nei diversi fronti.
Cosa può fare l’Italia?
Ripristinare relazioni diplomatiche e ridiscutere l’embargo in Parlamento. Per dare voce a coloro che vogliono che la Siria viva.
Tra questi c’è anche Bashar al Assad?
Sì, lo abbiamo incontrato e ci ha parlato proprio di questo.
Che cosa vi siete detti?
E’ stato un incontro pacato e cordiale. Il presidente siriano ci ha parlato a lungo della necessità di superare la stanca ed obsoleta ideologia del Ba’ath e nello stesso tempo offrire un’occasione di pacificazione agli avversari politici.
Quali passi ha fatto Assad in questa direzione?
Ha avviato il processo di riconciliazione della società siriana e ha offerto l’amnistia agli uomini in armi, fatta eccezione per i foreign fighters.
Quanto della gerarchia della periferia del partito la pensa come lui?
Lo sapremo solo accettando la sfida di un’apertura ragionevole, ma vera, alle ragioni di un paese che soffre e che per cultura e storia sentiamo in sintonia con il nostro.
Eppure, pare che Assad non abbia mai smesso di usare le armi chimiche. Cosa può dirci in proposito?
Nel 2013, mentre ero ministro della Difesa, Francia e Gran Bretagna chiesero di bombardare i siti chimici del regime. Io mi rifiutai perché in tal caso al Nusra e gli altri gruppi jihadisti sarebbero arrivati a Damasco entro Natale. Si fece una trattativa complessa, grazie alla mediazione della Russia, che portò in parte alla distruzione e in parte alla consegna delle armi chimiche alla comunità internazionale. Pertanto è del tutto inverosimile che dopo il 2013 si sia fatto impiego di armi chimiche su vasta scala.