Il Daily Mail pubblica oggi una nuova testimonianza del genocidio in atto nell’ex Birmania da parte dell’esercito governativo e dei radicali buddisti. Lo scorso 2 settembre, gli abitanti di un villaggio nella regione abitata dalla minoranza islamica, Quachong, si erano accorti che le truppe dell’esercito si stavano avvicinando. Per evitare il massacro hanno abbandonato tutto e si sono nascosti nella foresta, mentre i soldati distruggevano e incendiavano le povere case e lanciavano razzi e bombe in mezzo agli alberi cercandoli uno a uno per poterli uccidere. Fra questi, anche una donna di 30 anni, Hamida, già madre di sei bambini, agli ultimi giorni di gravidanza. Mentre si trovava nascosta nella foresta è cominciato il travaglio e in tre ore ha partorito in mezzo agli alberi, senza nessun tipo di assistenza.
Proprio in quegli ultimi momenti, con il bambino appena nato, si sono accorti che i militari si stavano avvicinando e sono fuggiti. Hamida non ha potuto neppure staccare il cordone ombelicale e ha corso in quelle condizioni con il neonato fra le braccia, soffrendo, come ha raccontato, dolori fortissimi. Dopo un po’ sono riusciti a trovare un posto riparato e il marito, spezzando in due una canna di bambù, ha potuto finalmente tagliare il cordone. Dopo un paio di giorni di riposo, con pochissimo cibo e niente acqua, la famiglia si è messa in marcia cercando di raggiungere il confine con il Bangladesh dove stanno fuggendo decine di migliaia di islamici. Dopo giorni di marcia hanno raggiunto il fiume Naf che fa da confine, dove un pescatore impietosito li ha trasportati in Bangladesh. Adesso si trovano nel principale campo profughi che ospita circa 50mila rifugiati, in condizioni pessime, con poche tende e poco cibo: “E’ una situazione disperata” ha detto la donna “ma non possiamo tornare indietro o verremo uccisi”.