L’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 è stato un evento orribile, che ha scioccato non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero. Un evento con caratteristiche eccezionali, innanzitutto per il numero di vittime: nessun attentato terroristico aveva causato migliaia di morti in una sola occasione. Eccezionali anche le modalità dell’attacco, che hanno fatto da subito sorgere polemiche, fino a far ipotizzare ad alcuni quantomeno complicità di una parte dell’apparato statale. A parte queste ipotesi estreme, l’attacco ha tuttavia mostrato una vulnerabilità insospettata del più potente Stato del mondo.
Le dinamiche dell’attacco alle Torri Gemelle sono tali da farlo considerare un vero e proprio atto di guerra, più che un attentato terroristico. In effetti, una conferma di questo giudizio viene dall’immediata invocazione — il 12 settembre 2001 — dell’articolo 5 del Trattato di Washington, atto costitutivo della Nato. E’ la prima e unica volta in cui si è ricorsi a questo articolo, secondo il quale “un attacco armato contro una o più di esse (parti dell’Organizzazione, ndr) in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti”. Di conseguenza la parte attaccata verrà assistita “intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale”.
L’11 settembre rappresenta per gli Stati Uniti un evento di natura epocale: per la prima volta un atto di guerra è stato portato sul territorio nazionale. Nelle due guerre mondiali gli americani hanno dato un tremendo contributo di sangue, ma la guerra si è sempre combattuta al di fuori del loro territorio. In quel settembre, l’attacco è avvenuto nel cuore degli Stati Uniti e contro uno dei simboli della loro grandezza. In piena Pax Americana — così almeno pensavano si potesse definire il periodo post guerra fredda — gli Stati Uniti si sono trovati in guerra e per la prima volta sul loro territorio. L’11 settembre è la data da cui, secondo molti osservatori, inizia la decadenza della supremazia americana sul mondo.
Nel 2001 la reazione americana è stata immediata e ha avuto come obiettivo l’Afghanistan nel tentativo di distruggere al Qaeda, un’operazione difficilmente definibile come un successo. Ci sono voluti ben 10 anni di presenza nel Paese delle truppe statunitensi e Nato per arrivare ad eliminare Osama bin Laden e, dopo quasi 16 anni, la guerra continua con i talebani ancora all’attacco. Una vicenda che ricorda dolorosamente agli americani l’avventura afghana dell’Urss, quei dieci anni di guerra dal 1979 al 1989 che portarono alla ritirata dell’Armata Rossa e che furono una delle cause del collasso sovietico.
Anche la successiva guerra, l’invasione dell’Iraq nel 2003, difficilmente può essere giudicata positivamente: se il regime change ha raggiunto il suo fine, l’abbattimento di Saddam Hussein, il nation building, la successiva costruzione di un sistema democratico, si è dimostrato fallimentare. Le differenze religiose ed etniche già esistenti non sono state ricomposte, anzi, e il sorgere dell’Isis, anche in parte a causa degli errori di gestione del dopoguerra, ha prolungato la guerra fini ai nostri giorni. Lo stesso giudizio può essere dato sull’intervento in Siria, dove non si è neppure raggiunto l’obiettivo del regime change e Assad è ormai un interlocutore indispensabile al raggiungimento di un accordo.
Per quanto possano essere considerati condannabili, il regime dei talebani (riconosciuto a suo tempo da alleati degli Usa come Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), quello di Hussein o di Assad non erano responsabili dell’attacco dell’11/9, alla base dell’applicazione dell’articolo 5. Tuttavia, regime change e nation building sono due pilastri della missione di cui si sentono investiti gli Stati Uniti e se il primo può essere raggiunto, pur con gravi costi per i popoli coinvolti, grazie alla potenza militare americana, il secondo si dimostra in gran parte inattuabile. Almeno al di fuori di quelle nazioni e di quei Paesi che si rifanno alla tradizione europea e alla sua derivata, quella americana.
La storia degli ultimi vent’anni dimostra come società che si rifanno a tradizioni culturali molto diverse, a sistemi statuali basati su principi distanti, come quelli puramente religiosi o tribali, difficilmente sono disposte ad accettare l’imposizione dei modelli occidentali. Un concreto e duraturo nation building può solo essere un processo, lungo e non facile, di collaborazione, di reciproche concessioni e di coinvolgimento dei popoli interessati: una strada che non sembra essere ben accetta a quella parte degli americani che vorrebbe che gli Stati Uniti fossero i tutori del mondo.