Non occupa i titoli del telegiornale quotidianamente, ma la situazione in Birmania è di quelle più complicate degli ultimi anni. Vittima di una situazione insostenibile è la popolazione rohingya, una minoranza musulmana residente in gran parte nello stato del Rakhine che da anni viene vessata dal governo di Myanmar. L’origine dell’ostilità è storica: il governo birmano nel 1982 è arrivato a togliere la cittadinanza ai rohingya, accusandoli di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui il Myanmar perse l’indipendenza e divenne una colonia britannica. Per molto tempo i rohingya sono stati trattati come cittadini di “serie B”, subendo molte limitazioni dal punto di vista dell’istruzione (molti di loro hanno avuto accesso soltanto ad un’istruzione di tipo religiosa fondamentalista) nonché della sanità e dei terreni. A lungo questa minoranza ha rifiutato di reagire con la violenza a questo tipo di discriminazione, credendo che un atteggiamento di questo tipo avrebbe peggiorato ulteriormente le cose. Nelle ultime settimane, però, i rohingya sono stati costretti in massa a lasciare le loro case: oltre 400mila residenti nel Rakhine sono scappati dalle loro abitazioni trovando rifugio nel confinante Bangladesh. Ma come si è arrivati a questo punto?

I ROHINGYA “TERRORISTI”

L’escalation di violenze ha avuto inizio quando il gruppo denominato “Esercito per la salvezza dei rohingya nel Rakhine” (più noto con la sigla inglese ARSA) il 25 agosto ha attaccato una stazione di polizia nello stato del uccidendo 12 persone, provocando la feroce reazione delle forze di sicurezza birmane. Questo gruppo è stato inserito dal governo di Myanmar nella lista delle organizzazioni terroristiche, ma a sua volta nega di avere legami con organizzazioni internazionali come al Qaida, sostenendo che la sua lotta sia finalizzata allo scopo di porre fine alle persecuzioni messe in atto dal governo birmano. Il fondatore di ARSA, come riporta Il Post, si chiama Ata Ullah e suo padre è un rohingya che ha dovuto trasferirisi in Pakistan a causa delle repressioni messe in atto da Myanmar. Inizialmente le istanze del gruppo militare non avevano fatto breccia nel popolo rohingya, più propenso ad accettare le persecuzioni piuttosto che ad imbracciare i fucili. Qualcosa è cambiato proprio all’indomani dell’attacco alla stazione di polizia del Rakhine compiuto da ARSA. L’International Crisis Group, arriva ad ipotezzare che le conseguenze delll’attacco siano state calcolate:”ARSA sapeva che stava spingendo le forze di sicurezza a rispondere con violenza, e sperava così che quella reazione avrebbe alienato ulteriormente le comunità rohingya, spingendole a sostenere ARSA, e avrebbe posto l’attenzione del mondo sugli abusi dei militari nello stato del Rakhine”. Missione compiuta.

IL SILENZIO COLPEVOLE DEL NOBEL SUU KYI

A destare scalpore, in uno scenario che ribalta le condotte diffuse in diverse regioni del mondo – dove a reprimere sono soprattutto i musulmani – è l’atteggiamento della leader di fatto del Myanmar, Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991. Come molti osservatori hanno fatto notare, Suu Kyi in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, non ha condannato la condotta dei militari birmani che hanno yalla fuga centinaia di migliaia di rohingya innocenti. Suu Kyi è sembrata girare intorno alla questione, sostenendo che “anche noi siamo preoccupati. Vogliamo capire quali siano i veri problemi. Ci sono state accuse e contro-accuse. Noi ascoltiamo tutti. Dobbiamo essere sicuri che queste accuse siano basate su prove concrete, prima di prendere qualsiasi iniziativa“. Sono in tanti a domandarsi del perché di questa condotta da parte della leader di Myanmar, soprattutto considerando che sono stati gli stessi componenti dell’esertio birmano a tenerla imprigionata per anni. Il fatto sconvolgente è che l’influenza pressoché nulla dei rohingya sulla vita in Birmania – non possono neanche votare – potrebbe essere la causa del disinteresse del Nobel alla questione. Difficile andare contro al tuo Paese per salvaguardare i diritti di chi “non esiste”. Si spiega così il ricorso al terrorismo islamico: in questo caso, per quanto assurdo, unica arma per garantire i propri diritti e la propria sopravvivenza.