E’ davvero il caso di cantare vittoria dopo il vertice di Parigi sui migranti dello scorso 28 agosto salutato da molti come un grande successo diplomatico per l’Italia? A ben guardare la risposta non può essere del tutto affermativa. E la prova viene dal summit riservato tra il ministro dell’Interno Marco Minniti e il generale Khalifa Haftar che si è svolto a metà della settimana scorsa a Bengasi e di cui solo ieri si è avuta notizia. Cerchiamo di capire perché. 



In primo luogo non bisogna avere la memoria troppo lunga per ricordare che l’Europa ci ha fin qui lasciati soli nel tentare di arginare un problema che, per lo meno fino al luglio di quest’anno, era di una gravità estrema. Eppure avevamo chiesto più volte aiuto ai riluttanti leader dell’Unione. Il 22 giugno scorso il neo inquilino dell’Eliseo, durante il G7 di Taormina, aveva “azzardato” un mea culpa dicendo “non abbiamo ascoltato l’Italia sull’ondata che stava arrivando e ora servono regole comuni Ue”. Neppure 20 giorni dopo al vertice di Tallin ci ripensa e volta le spalle all’Italia bocciando, in tandem con Germania e Spagna, la richiesta del ministro Minniti di una “regionalizzazione” del soccorso, in altre parole l’apertura dei porti della costa meridionale europea alle navi che recuperano migranti nel Mediterraneo. Passano pochi giorni e, con un rigurgito di grandeur d’oltralpe, invita a Parigi Fayez al Serraj, premier del Governo di accordo nazionale voluto dall’Onu, e il generale Khalifa Haftar, uomo forte dell’est libico, per tentare un accordo, “dimenticandosi” di avvertirci. Gli esempi potrebbero continuare ma tanto basta per dire che “fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio”. 



E veniamo al secondo punto. In cosa consiste la politica messa in campo dall’Italia su cui, almeno per ora, sembrano convergere tutti i big europei? In estrema sintesi: depotenziare il ruolo delle Ong nelle operazioni di ricerca e salvataggio in mare, appaltando il problema alla guardia costiera libica, con l’obiettivo di avere il minor numero possibile di migranti da condurre nei porti italiani. Ottima idea, verrebbe da dire osservando i numeri: ad agosto gli sbarchi sulle coste italiane sono diminuiti quasi dell’80 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Ma se guardiamo oltre le cifre le cose cambiano. Per la realizzazione di tale politica sono stati messi in campo soldi e aiuti per la guardia costiera ma, secondo alcune inchieste, anche per alcune milizie precedentemente implicate nella tratta di migranti. Il rischio è che alcuni gruppi armati che, giova ricordarlo, cambiano casacca con estrema facilità, potrebbero rispettare gli accordi fino al momento in cui farà loro comodo, cioè fintanto che garantiranno un afflusso di denaro sufficiente a coprire le perdite derivanti dagli introiti del traffico dei migranti. D’altra parte l’esperienza ci ha insegnato che dare soldi alla Libia significa spesso finire per spesare le armi di gruppi e milizie che poco hanno a cuore lo sviluppo del Paese. 



Insomma, nonostante gli innegabili sforzi del nostro ministro dell’Interno, non sembra un’azione in grado di reggere nel lungo periodo. Senza una stabilizzazione del quadro politico e senza un concreto rilancio dell’economia libica — che passa per la ripresa della produzione di petrolio — non vi potrà mai essere una reale politica migratoria per e con la Libia. 

C’è poi un altro tema che la coscienza impone di trattare: cosa si pensa di fare con i migranti che, per usare un termine volutamente brutale, vengono “rispediti” nei centri di detenzione libici le cui inumane condizioni sono state ampiamente documentate? Di questo a Parigi non si è parlato più di tanto, eppure il problema non è certo di secondaria importanza. Senza troppa convinzione qui a là è trapelata (soprattutto da parte francese) l’ipotesi di aprire hot spot in Libia: idea piuttosto balzana in un Paese così instabile e in cui mancano totalmente le condizioni strutturali e di sicurezza. Per ora il problema è stato demandato al prossimo vertice di (fine) settembre: nel frattempo i migranti resteranno confinati nel lager sparsi per il territorio?

A pensar male si commette peccato ma, da quanto fin qui detto, non possiamo non essere assaliti da un dubbio: Macron e company potrebbero aver deciso di sfruttare l’Italia per fare “il lavoro sporco” per poi limitarsi a mettere la ciliegina sulla torta con un vertice fatto ad arte, recitando la parte dei buoni, per riaccreditarsi in Libia e mettere le mani sulle risorse del Paese? Lo abbiamo detto poco sopra ma giova ripeterlo: “fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio”.

Gentiloni e Minniti lo hanno capito e sono corsi ai ripari. Da qui la necessità di ottenere il consenso di Haftar, dopo i mal di pancia (e le minacce) suscitati dalla missione italiana e dall’interlocuzione fino ad ora “privilegiata” con al Serraj.