Il 22 settembre 2015 l’Ue ha istituito un meccanismo per la ricollocazione, nell’arco di un periodo di due anni, di 120mila persone bisognose di protezione internazionale dall’Italia e la Grecia verso altri Paesi europei.

La misura, di carattere temporaneo ed eccezionale, adottata nel pieno dell’emergenza migratoria, con il voto contrario di Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria e l’astensione della Finlandia (mentre Regno Unito e Danimarca ne rimangono estranei, conformemente alla posizione generale di tali Paesi rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Ue) avrebbe dovuto (sic!) alleviare il peso sproporzionato che grava sui Paesi Ue che si affacciano sul Mediterraneo meridionale. Una goccia nell’oceano, certamente, nel mare infinito dei flussi dei migranti che approdano sulle nostre coste e quelle della Grecia. Sono circa 1,7 milioni i migranti che hanno cercato di arrivare in Europa dal 2014. 



In attuazione di tale meccanismo, che ha interessato ad oggi soltanto 27.695 persone, di cui 19.224 dalla Grecia (soprattutto siriani) e 8.451 dall’Italia (in gran numero eritrei), e non sarà esteso oltre la scadenza fissata al 26 settembre prossimo, l’Ungheria avrebbe dovuto accogliere 1.294 richiedenti asilo, la Slovacchia 802. Mentre quest’ultima sta solo ora preparando le prime ricollocazioni dall’Italia, l’Ungheria, così come la Polonia, non ha trasferito nessuno; anche la Repubblica ceca non ha promesso posti per la ricollocazione per più di un anno.



Due giorni fa, la Corte di giustizia dell’Ue ha respinto la richiesta di Ungheria e Slovacchia di annullare la decisione del 22 settembre 2015. 

Il ricorso si basava su motivi di legittimità sia procedurali che sostanziali. La Corte ha dichiarato che “il Consiglio non era tenuto ad adottare la decisione impugnata all’unanimità” e che la decisione non è viziata da errori di ordine procedurale legati alla scelta di una base giuridica inappropriata, ma — quel che più conta — trova il proprio fondamento nel principio, sancito fra l’altro nell’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, di solidarietà e dell’equa condivisione di responsabilità fra gli Stati membri, anche sul piano finanziario, che dovrebbe governare la politica dell’Unione in materia di controlli alle frontiere, asilo e immigrazione.



Sul piano sostanziale dell’idoneità e necessità della misura a rispondere alla crisi migratoria, la Corte ha ritenuto che “il meccanismo di ricollocazione previsto dalla decisione impugnata non costituisce una misura manifestamente inadatta a contribuire al raggiungimento del suo obiettivo, ossia aiutare la Grecia e l’Italia ad affrontare le conseguenze della crisi migratoria del 2015”. E che “il numero poco elevato di ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della decisione impugnata può spiegarsi con un insieme di elementi che il Consiglio non poteva prevedere al momento dell’adozione di quest’ultima, tra cui, segnatamente, la mancanza di cooperazione di alcuni Stati membri”.

Le conseguenze sono importanti. Innanzitutto, la sentenza della Corte di giustizia è definitiva e non è soggetta ad impugnazioni. La decisione del 22 settembre 2015 è, dunque, valida e le quote sul ricollocamento sono obbligatorie e debbono essere rispettate non solo da parte dagli Stati ricorrenti (Ungheria e Slovacchia), ma anche degli altri che ad oggi non hanno applicato la decisione (Polonia e Repubblica ceca). In caso di persistente rifiuto, il Commissario Ue per l’Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, ha già annunciato che andranno avanti le specifiche procedure d’infrazione aperte nel giugno scorso dalla Commissione europea contro Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca. Per ora la Slovacchia è stata risparmiata. Il ricorso per infrazione è destinato a concludersi con una sentenza della Corte di giustizia che accerta l’inadempimento all’obbligo di ricollocamento, la cui mancata esecuzione può dar luogo a sua volta ad un ulteriore procedura di infrazione, questa sì idonea a condannare gli Stati convenuti al pagamento di sanzioni pecuniarie, che possono essere anche molto ingenti e consistere in una somma forfettaria e/o una penalità giornaliera (fino al completo adempimento). 

Il significato più importante, tuttavia, non è né nei numeri delle persone ricollocate a seguito della decisione Ue, che rimangono nell’ordine delle poche centinaia e, dunque, una goccia nell’oceano, né nell’entità delle sanzioni pecuniarie, che difficilmente incidono sulle scelte politiche di fondo, attinenti a pretese ragioni di sovranità, all’origine del rifiuto di cooperare da parte dei Paesi del gruppo di Visegrad.

Ora che la Commissione europea sta lavorando ad una proposta di modifica delle regole attuali, la sentenza della Corte Ue dovrebbe ispirare una politica dell’immigrazione davvero comune e davvero europea, e per questo più umana, che finalmente riconosca l’insostenibilità e l’ipocrisia del sistema di Dublino il quale impone agli immigrati di rimanere nello Stato di primo ingresso e a quest’ultimo di farsi carico di processare le relative domande di asilo, con tutto ciò che ne consegue (in termini di procedure, accoglienza, assistenza etc.). 

La geografia non può essere cambiata: l’Italia insieme ad altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo sarà sempre fra i più esposti ai flussi dei migranti. Il diritto non po’ mutare questo dato di realtà; ma quello che il diritto può e dovrebbe fare è non aggiungere il danno alla beffa. Il sistema di Dublino ha posto un onere giuridico sproporzionato sui Paesi di primo approdo, come l’Italia e la Grecia, che si aggiunge allo svantaggio che questi Paesi comunque soffrono per via della loro posizione geografica e della geopolitica ai confini dell’Europa. 

È un dato di fatto che il sistema di Dublino non ha funzionato e la libertà di circolazione che ne costituisce il presupposto esiste ormai solo sulla carta. Germania, Austria, Svezia e Danimarca hanno chiesto di prolungare il ripristino dei controlli alle frontiere, in deroga all’accordo di Schengen sulla libera circolazione. È da augurarsi che l’importanza della solidarietà quale valore di base ed esistenziale dell’Unione, riconosciuta dalla Corte europea, sia riconosciuta non solo e non tanto ad Est, ma anche e soprattutto a Nord e nel centro dell’Europa. O la sua affermazione sarà ancora una volta soltanto un’altra goccia nell’oceano.