“Anche molti americani sono convinti che Donald Trump abbia dei seri problemi mentali, ma c’è ancora una forte percentuale di sostenitori, uno zoccolo duro che aspetta da lui quei cambiamenti nelle politiche americane che aveva promesso in campagna elettorale”. Così ha detto a ilsussidiario.net il giornalista e scrittore americano Andrew Spannaus, autore del primo libro su Trump presidente (“Perché vince Trump”). A proposito del nuovo libro sul presidente americano che sta suscitando scalpore in tutto il mondo, Fire and Fury di Michael Wolff in cui lo stratega della vittoria elettorale Steve Bannon attacca apertamente Trump, Spannaus dice che paradossalmente solo Bannon può oggi salvare “The Donald”. Intanto, con grande clamore, l’altra metà dell’America scopre di avere una possibile candidata: Oprah Winfrey, la più nota presentatrice televisiva del Paese.
Spannaus, nel nuovo libro di Wolff si leggono dichiarazioni di membri dello staff elettorale che dicono che Trump in realtà non voleva vincere le elezioni, che avrebbe avuto più vantaggi a perderle. Le sembrano dichiarazioni veritiere?
In generale di questo libro credo che le dichiarazioni e i racconti siano attendibili. Ci sono alcuni errori, alcuni dubbi su come l’autore abbia ottenuto certe dichiarazioni e se lo ha fatto con il permesso delle persone coinvolte. Ma molti personaggi citati hanno confermato le loro parole. Direi dunque che è un libro verosimile. Bisogna però ricordare che si tratta di opinioni personali e non della verità sui fatti.
Ma del fatto che avrebbe preferito non diventare presidente degli Stati Uniti? Le sembra possibile?
Che pochi pensassero, anche lui stesso, che avrebbe vinto è vero. Negli ultimissimi giorni sembrava davvero poco probabile, però qualcuno, anche se pochi, ne erano convinti. Steve Bannon aveva costruito una strategia precisa per vincere. Se Trump non volesse vincere è una valutazione psicologica, è evidente che avrebbe approfittato della situazione anche perdendo, avrebbe fatto un programma televisivo come prima cosa. Ma è altrettanto vero chiaro che ha attuato una strategia vincente, non ha cercato di perdere, non dobbiamo infilarci in questo tipo di interpretazione.
A proposito di Bannon, ha fatto marcia indietro rispetto alle accuse contenute nel libro, dicendo che non si rivolgeva al figlio di Trump. Cosa c’è di vero?
Bannon è quello che ha avuto la visione strategica e tattica più chiara a livello politico, e quindi non è stato difficile per questo giornalista fargli dire critiche e lamentarsi degli altri. Ha una visione precisa di come dovrebbe essere l’amministrazione, ma trova resistenze a questa visione e attacca tutti coloro che ritiene insufficienti al loro ruolo.
Ad esempio?
La figlia di Trump, Ivanka, e tutti quelli che lui chiama “globalisti” come Goldman Sachs. Quando vede decisioni poco opportune lui lo dice, e Wolff ha fatto solo il suo lavoro raccogliendole.
Ci sarà un riavvicinamento adesso? Bannon è essenziale per l’amministrazione Trump?
Secondo me sì. Bannon è molto importante per Trump, lui o qualcuno come lui senza i suoi difetti. Ritengo che la sua visione antiglobal, che poi è parziale in lui, le sue idee molto chiare sugli errori dell’élite americana e occidentale negli ultimi anni siano fondamentali. Trump non ha da solo la chiarezza mentale sufficiente su questi temi, è facilmente manipolabile.
Come procede a questo punto il Russiagate?
E’ chiaro che dopo queste dichiarazioni di Bannon ha ricevuto nuova linfa. Per la stampa e per chi vuole portare avanti il caso hanno rimesso attenzione sugli errori della squadra di Trump. Non cambia comunque il fatto che anche se c’è stata collusione, non c’è nulla per cui lo si possa incriminare.
Che percezione reale hanno di lui oggi gli americani? In Italia si discute se sia malato di mente o no.
In molti anche in America pensano che Trump abbia dei problemi mentali, ma c’è uno zoccolo duro tra il 35 e il 40 per cento che ancora è disposto a mettere in secondo o terzo piano questi difetti, di fronte alla necessità percepita di un cambiamento serio nelle politiche americane. Lo vedono come un uomo di successo anche se diverso dai politici usuali. Ha perso un po’ di sostegno perché manca la progettualità che ci si aspettava che avesse, con quello che aveva promesso in campagna elettorale si pensava fosse più deciso nell’attuare gli obbiettivi, invece si sta dimostrando meno efficace.
Occupandoci un momento dell’area liberal, ha suscitato molto scalpore il discorso di Oprah Winfrey alla serata dei Golden Globe. In molti vorrebbero candidarla contro Trump nel 2020. E’ così? E’ di un personaggio come lei che hanno bisogno i democratici?
Va detto che la Winfrey ancora prima del discorso dell’altra sera pensava a un’ipotetica candidatura per il 2020. Naturalmente manca molto tempo, bisogna vedere se emergeranno altri candidati in quell’area, ma si può dire che la Winfrey con quel discorso ha sfruttato molteplici aspetti politici.
Quali esattamente?
Innanzitutto il fatto di essere una donna molto conosciuta. In secondo luogo il tema caldo del maschilismo, che fino a ieri era sintetizzato con lo slogan “me too” e che adesso, coniato da lei, è “time’s up”, il tempo è finito (per il maschilismo dominante, ndr). Terzo elemento, è grande amica dei coniugi Obama, e a molti il fatto di essere afroamericana fa venire in mente quelli che per i supporters sono stati i tempi felici della presidenza di un afroamericano.
Il quarto elemento?
E’ quello più importante, quello che nessuno cita. Oprah Winfrey è democratica, liberal, progressista di sinistra, ma grazie al suo lavoro entra nelle case anche della classe medio-bassa, quella che ha votato Trump, e che l’apprezza molto. Non appartiene all’élite snob delle attrici hollywoodiane, è amata dal popolo, ha un appeal pubblico e questo è ciò che la spinge a provarci con la politica.
Si può dire che grazie a lei il mondo liberal, dopo la disfatta della Clinton, ha trovato un nuovo punto di riferimento?
Si può dire che con il suo discorso ha cercato di far fare un grosso passo in avanti all’opposizione a Trump e cercare di diventare un punto di riferimento.
(Paolo Vites)