Le elezioni che nei mesi scorsi si sono svolte in molti paesi europei hanno evidenziato che il dossier migranti è la carta che molti hanno utilizzato come strumento di pressione e influenza sui sentimenti degli elettori.
Questo è avvenuto nonostante lo scorso anno abbia visto un calo nell’afflusso dei profughi: l’agenzia europea per il controllo dei confini (Frontex) ha infatti reso noto nello scorso gennaio che il numero dei migranti illegali arrivati in Europa è diminuito nella prima metà del 2017 del 68% rispetto allo stesso periodo di tempo del 2016, totalizzando 116mila unità.
Il dossier immigrazione resterà al centro dei dibattiti politici in un’Europa in cui crescono le ideologie ostili all’accoglienza dei profughi. Tuttavia, a differenza di quanto si ripete in alcuni discorsi populisti, i migranti portano nei paesi nei quali arrivano un contributo superiore ai costi dovuti alla loro presenza.
Ci sono molti studi che fanno luce sulla contraddizione europea in materia di immigrazione: nessuno vuole riconoscere che la vecchia Europa trae vantaggio in termini demografici dall’apporto di giovani legato all’arrivo dei migranti. I numeri dicono che nel 2050, il 28% degli abitanti dei paesi dell’Unione Europea raggiungerà l’età pensionabile. In Germania, Grecia, Portogallo, Slovacchia e Spagna la percentuale dei pensionati costituirà in quell’anno un terzo del numero degli abitanti: oggi la percentuale è del 20% o meno.
In base a quanto afferma il rapporto sull’invecchiamento per l’anno 2015 redatto dalla Commissione Europea, il tasso di impiego di cittadini che hanno oltrepassato i 65 anni di età salirà fino al 50,1% entro il 2060, mentre il peso attuale è del 28,7%. Questi andranno ad aggiungersi alle classi economicamente attive, la cui età è compresa tra i 15 e i 64 anni.
L’invecchiamento della popolazione porterà alla riduzione dei tassi di crescita economica per l’Unione Europea intorno allo 0,2% l’anno. Perché possa preservare la sua crescita economica, l’Europa necessita dunque di un incremento nel numero di abitanti più giovani e l’unico modo per realizzarlo, nella misura di 42 milioni di nuovi abitanti entro il 2020 e di circa 257 milioni entro il 2060, è l’aumento dei tassi di immigrazione.
Non si pensa mai, però, al fatto che ciò che accade è un vantaggio per l’economia dell’Europa, ma rappresenta una grave perdita di capitale umano per i paesi da cui arrivano i migranti.
Con l’avvio della globalizzazione, anni fa, era naturale che i paesi in via di sviluppo assistessero a una migrazione delle competenze. Questa fu una delle principali contraddizioni del nuovo sistema mondiale, frutto dell’imposizione da parte dei paesi progrediti dei loro interessi sui paesi arretrati. Ora essi insistono sulla libertà di commercio di merci e di servizi mentre continuano a tenere chiusi i confini di fronte allo spostamento degli uomini, come indica l’esperto egiziano Nader Fergany nell’introduzione alla relazione sullo sviluppo umano.
La migrazione delle competenze dai paesi di origine è una “emorragia” di una risorsa essenziale che indebolisce le opportunità di sviluppo, oltre a essere un indice della diffusione di una cultura dello “spreco” nei paesi d’origine, conseguenza di un assolutismo politico che ha acceso guerre in paesi come la Siria, l’Iraq, la Libia e lo Yemen.
È indubbio che la migrazione di un individuo è in circostanze naturali una perdita netta per il paese di origine, un costo storico che grava sulla società in termini di formazione e istruzione di questo migrante. A fronte di questo costo storico per il paese di origine sta il guadagno primario che il paese meta di emigrazione consegue. Nel caso della Siria, per esempio, un recente studio del ricercatore Omar Yusuf mostra che la migrazione dei quadri siriani per effetto della guerra ha bruciato 40 miliardi di dollari. Continua insomma “lo svuotamento delle menti” e “la migrazione dei cervelli”.
(Traduzione dall’arabo di Chiara Carugno)