La Turchia nella notte tra giovedì e venerdì scorso ha lanciato l’operazione “Ramo d’ulivo” contro le forze curde dislocate nel cantone siriano di Afrin. Dopo una preliminare offensiva di artiglieria, 72 aerei turchi hanno bombardato 153 obiettivi appartenenti alle Unità di protezione popolare (Ypg), al Partito curdo dell’Unione democratica (Pyd) e al Partito dei lavoratori del Kurdistan (ovvero il Pkk, la formazione separatista curda che la Turchia considera come terrorista). Ieri è giunta notizia che l’operazione è accompagnata da forze speciali e da carri armati, entrati in territorio siriano. l’ex capo dello stato maggiore della Turchia, generale Hulusi Akar, ha dichiarato che l’operazione è diretta solo a “terroristi, i loro rifugi, abitazioni, armi, strumenti e attrezzature”.



L’escalation parte dalle note tensioni curdo-turche. Sin dallo scorso anno Ankara aveva duramente protestato per l’ingente fornitura di munizioni, armi di diverso tipo, carri armati ed equipaggiamento d’alta ingegneria che Washington ha passato alle forze del Ypg. La situazione poi, si è fatta sempre più tesa; finché la settimana scorsa il Pentagono ha comunicato che è in fase di completamento un costituendo corpo di 30mila uomini formato essenzialmente dal Ypg, da utilizzare per il controllo dei confini con la Turchia a nord e con l’Iraq a sud-est. 



Questo annuncio è stato la classica goccia che fa traboccare il vaso: Erdogan aveva già promesso lunedì scorso “strangoleremo la forza sostenuta dagli Stati Uniti in Siria prima che nasca“: Ankara già da tempo mal tollerava la presenza di forze curde sul proprio confine, figurarsi quindi il loro ulteriore potenziamento. L’irritazione turca è anche avvalorata dal fatto che gli Stati Uniti hanno giustificato questa loro decisione per impedire il transito dei miliziani dell’Isis. Ciò confligge però con il fatto che Washington — come merce di scambio per il rilascio di territori che prima occupava a nord dell’Eufrate — ha accordato all’organizzazione terrorista un’enclave che parte all’altezza di Aaloua e che corre lungo il confine iracheno verso sud per circa 200 chilometri, fino a poco prima della località siriana di al Bukamal (vedi mappa).



La contraddittorietà è evidente: come mai Washington che non ha nulla da ridire per la presenza di Isis per 200 km lungo la frontiera irachena (nell’est siriano), sente il bisogno di far vigilare la frontiera della Turchia, un paese membro della Nato?

La risposta a questa domanda arriva da un importante discorso del segretario di Stato Tillerson tenuto mercoledì scorso, presso la Hoover Institution, alla Stanford University. L’intervento, intitolato “La via da seguire per gli Stati Uniti in merito alla Siria” esemplifica quale sarà la politica degli Stati Uniti in Siria da adesso in poi: l’amministrazione americana continuerà a tempo indefinito l’occupazione del nord della Siria e ad armare i ribelli e realizzerà uno stato curdo autonomo, indipendente dal governo siriano, facendo tutto quanto necessario per costringere “Assad ad andarsene” e “impedire all’Iran di aumentare la sua influenza nella regione”. 

Operativamente, il discorso di Tillerson ricalca la vecchia dottrina del consigliere per la sicurezza nazionale gen. McMaster, per cui la strategia da seguire in Siria è attuare una “deterrenza avanzata”, capace di “aumentare la pressione”, così che “il nemico si convincerà che non sarà in grado di raggiungere i suoi obiettivi a un costo accettabile”. 

Il risultato di questa tattica è una guerra senza vinti né vincitori  in cui tutte le opzioni sono valide se possono “scoraggiare la progressione militare del nemico”, come pure il progresso nella ricostruzione del paese e gli sforzi per il ripristino del pieno controllo governativo dei confini della Siria. 

Va da sé che secondo questo disegno ogni accordo politico, la fine dei combattimenti, così pure il ripristino dei servizi essenziali alla popolazione nelle zone governative, sono contro quando auspicato. 

La domanda è quindi se la Turchia ora si spingerà troppo in là fino ad infrangere l’intesa con la Russia e l’Iran, indispensabile per il proseguimento del processo di pace. Per la verità sembra che — sebbene l’operazione turca si svolga in una zona di de-escalation presidiata da osservatori russi — Ankara non voglia una frattura con Mosca: il ministro della difesa turco Nurettin Canikli ha preventivamente fatto spostare gli osservatori russi in una zona più a sud, nel settore siriano (al di fuori dei bombardamenti).

Ciononostante è indiscutibile che l’iniziativa di Erdogan (così solerte contro i curdi ma non altrettanto sollecita a tagliare definitivamente con al Qaeda), non favorirà certo la fiducia reciproca tra Russia e Turchia. Infatti, l’attacco di Ankara è stato lanciato in un momento in cui i rapporti tra il terzetto di Astana erano già tesi perché Erdogan non ha fatto nulla per frenare la recente controffensiva di al Qaeda e dei ribelli “moderati” contro le forze siriane a nord di Hama. 

Ciò che è da auspicare è quindi che i leader degli stati del terzetto di Astana capiscano che in questo momento la priorità è che si svolga l’importante appuntamento del Congresso del Popolo previsto a Sochi il 29 gennaio (a cui parteciperanno 1700 rappresentanti di tutte le realtà politiche siriane). Solo celeri passi per una rapida pacificazione tra siriani potranno impedire i vari progetti distruttivi dei vari “think thank” occidentali.