“The Post” arriverà nei cinema italiani solo fra due weekend, ma la sua passerella mediatica è già compiuta, complice una veloce sosta a Milano del regista Steven Spielberg. Il rito della memoria politico-culturale è già celebrato quando sul web campeggiano titoli come “The Post è il simbolo di un cinema di cui si avrà sempre bisogno”. Quello captato sul sito del Fatto Quotidiano è in sé azzeccato: il Washington Post degli anni 60 e 70 rimane un mito granitico e insindacabile, Bob Woodward e Carl Bernstein sono fin da allora icone senza tempo, il caso Watergate è un archetipo contemporaneo di guerra fra bene assoluto (il kennedysmo, il giornalismo liberal, la “democrazia”, ecc.) e male assoluto (Richard Nixon, i poteri occulti, “la destra”, ecc.), con happy end incorporata ed esemplare. Non a caso funziona benissimo al cinema: a caldo con “Tutti gli uomini del Presidente”, quarant’anni dopo con “The Post”. Allora Robert Redford e Dustin Hoffmann nei panni dei giornalisti-David contro il Golia della Casa Bianca; oggi Tom Hanks e Meryl Streep a riverniciare i santini del direttore Ben Bradlee e dell’editrice Kay Graham. Box-office, candidature all’Oscar e glorificazione liturgica: en plein.



Nel 1976 le statuette servirono a festeggiare quella che sembrava una vittoria grande, “definitiva”; ma in realtà celava una piccola rivincita fra clan: la fine, non l’inizio di un’epoca. Il ritorno del democratico Jimmy Carter alla Casa Bianca, per giudizio ormai unanime, fu disastroso: il rientro di Khomeini in Iran, per fare un esempio, cade in quel quadriennio, fra disattenzione geopolitica e primordi del pensiero politicamente corretto riguardo la nascita del fondamentalismo islamico. E se Ronald Reagan arriva alla presidenza solo nel 1980 – dando gas a una svolta globale impostata da Margareth Thatcher – è stato perché quattro anni prima i repubblicani gli preferirono Gerald Ford, il debolissimo vice che aveva rimpiazzato Nixon dimissionario.



I fatti – diversi dalla loro costante narrazione – erano comunque tali allora e lo restano oggi. Bradlee aveva fatto la sua gavetta come agente della Cia a Parigi: prima all’ambasciata Usa, poi come capo dell’ufficio di Newsweek. Lavorava alle operazioni di contro-informazione anti-sovietica e non è mai stato smentito che Bradlee abbia messo mano alle campagne d’opinione a favore della condanna a morte dei coniugi Rosenberg, per accuse di spionaggio mai del tutto provate. Arrivò al Post poco dopo l’assassinio di Kennedy: la Graham, ricchissima ereditiera israelita, era amica intima di JFK e della moglie Jackie nell’aristocratica cerchia di Georgetown, i Parioli di Washington.



Il candidato Kennedy e poi la sua amministrazione si appoggiarono strutturalmente alla Cia, agenzia allora “minore” rispetto alla potentissima Fbi guidata dal reazionario John Edgar Hoover. Quest’ultimo diffidava da sempre del padre dei fratelli Kennedy: immigrato irlandese, arricchitosi durante il proibizionismo, presidente della Borsa di New York durate il crack del 1929, ambasciatore in Gran Bretagna come compenso per le ingenti collette elettorali per Franklin Delano Roosevelt. Erano nei fascicoli personali di Hoover i rapporti fra Kennedy Jr e Sam Giancana, si dice decisivi per JFK nella conquista dell’Illinois e della Casa Bianca nel 1960. La forzata Cia-dipendenza costò a Kennedy sia il fiasco della Baia dei Porci (tentativo di contro-golpe a Cuba) sia l’intervento in Vietnam. I grandi giornali – che dalla sua presidenza si ribattezzarono “liberal”, Post in testa – furono comunque sempre con lui nel sostenere la continuazione della Guerra Fredda con altri mezzi.

Se nel 1971 il New York Times e poi il Post pubblicarono con grande clamore i controversi Pentagon Papers, fu soltanto perché l’ex segretario alla Difesa Robert MacNamara volle far ricadere a posteriori tutte le responsabilità della tragedia vietnamita sul Lyndon Johnson: il successore texano di JFK che non aveva mai accettato la tutela dell’establishment democrat di Washington, legato a Wall Street e alla vecchia aristocrazia industriale. Questi circoli – in ogni caso – aveva approfittato della prima elezione di Nixon, nel fatidico ’68, per effettuare notevoli investimenti politico-editoriali sulle rivolte nei campus americani degli anni 60: altro humus della dittatura ideologica politically correct, maturata nel cinquantennio successivo (a proposito: per il “Georgetown set” l’allarme rosso scattò solo dopo l’assassinio di Robert Kennedy, non certo per quello di Martin Luther King).

Il Watergate fu il capitolo finale di una guerra di potere pura e dura. E già dal 2005 sappiamo che la leggendaria inchiesta sul Post fu in realtà un numero che in Italia oggi verrebbe collocato nel “circo mediatico-giudiziario”: alimentato direttamente dal numero 2 dell’Fbi, Mark Felt. Hoover, Il vecchio tiranno del Bureau era morto nel maggio 1972 e nel caos della successione, Felt aveva molte ambizioni, qualche chance e pochi appoggi. Pensò di giocarsela con il Post – il nemico più acerrimo di Nixon in edicola – offrendo subito il caso del momento: la celebre incursione di un commando di cinque fiancheggiatori repubblicani presso gli uffici centrali del partito democratico. Bradlee ha sempre saputo chi era la “Gola Profonda” dei suoi cronisti: un personaggio di primo piano dello “Stato profondo” che combatteva una battaglia d’interesse personale pilotando illegalmente informazioni riservate presso un giornale interessato, strumento di una lobby potente.

Il resto è stato “cronaca”, fino alle dimissioni di Nixon nel 1974, e poi soprattutto fiction. Anche oggi: proprio quando i successori di Bradlee & C combattono Donald Trump in quanto ennesimo “presidente sbagliato”. Uno da mettere sotto inchiesta a prescindere, da cacciare al piu’ presto, fake news per fake news. Anche con un film “di cui c’è sempre bisogno”. Stando però attenti agli eccessi politically correct: proprio a Hollywood un tweet-denuncia per presunte molestie sessuali ha messo in difficoltà perfino Hoffmann-Bernstein. E poi l’ultima grido dello showbiz è cambiare i finali se non piacciono. Chissà se un giorno qualcuno comincerà a dire che è ora di cambiare l’eterno finale feelgood della Watergate-story, della saga del Post.