Ha dovuto attendere quasi due mesi. Poi, pochi giorni fa, è arrivato il nulla osta della Cia: Mike Pence, vicepresidente degli Stati Uniti, poteva sbarcare in Israele e raggiungere Gerusalemme in condizioni di sicurezza. All’inizio dello scorso dicembre il vicepresidente era stato invitato a rinviare il viaggio programmato per celebrare con Netanyahu l’annuncio degli Stati Uniti di voler spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Era, di fatto, il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele prima di un qualsiasi accordo con i palestinesi guidati da Abu Mazen. Due mesi fa le proteste palestinesi, anche a Gerusalemme, con decine di morti e centinaia di feriti, avevano indotto gli esperti della sicurezza ad imporre ai “politici” della Casa Bianca prudenza ed il rinvio del viaggio.
Adesso le proteste di piazza sembrano placate. Le conseguenze politiche, sul piano internazionale, invece, ancora più marcate. E questo non è un buon risultato, né per gli Stati Uniti né per Israele. Mentre Pence entrava nella Knesset, Abu Mazen entrava nei palazzi dell’Unione Europea a Bruxelles. Mentre nella sede del Parlamento israeliano si scattava una foto, senza sorprese, da Bruxelles veniva un segnale importante, una reazione alla politica di Trump in Medio Oriente che si va chiarendo e consolidando in Europa e non solo.
Pence alla Knesset ha raccolto le ovazioni dei deputati israeliani, ad eccezione di una manciata di rappresentati dei partiti arabi. Subito espulsi. Tra il pubblico, invitati, spiccavano i rappresentanti dei coloni israeliani, invitati dall’ambasciata americana in Israele. Nulla che non fosse prevedibile. Anche i tempi lunghi del trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme (Pence ha parlato della fine del 2019) erano attesi.
A Bruxelles, invece, è accaduto qualcosa di meno scontato. Di fronte al leader palestinese Abu Mazen che chiedeva ai paesi dell’Unione Europea di riconoscere lo Stato di Palestina entro i confini del 1967, si è ascoltata una voce che aveva accenti nuovi. “L’Unione Europea è ferma — ha detto Federica Mogherini, rappresentante degli affari esteri dell’Ue — sulla soluzione di due Stati con Gerusalemme capitale di due Stati: lo Stato di Israele e lo Stato di Palestina”. Ebbene, sul destino di Gerusalemme, l’Unione Europea negli ultimi dieci anni è stata invece sempre più silenziosa, ambigua, latitante. La decisione dirompente di Trump e le reazioni politiche e della piazza hanno avuto il merito, paradossale, di riproporre come centrale per un vero accordo di pace il futuro di Gerusalemme. Anche i paesi europei sono tornati ad interrogarsi sui propri silenzi e sulle scelte da sostenere, se si crede ad una vera trattativa di pace. Di fronte c’è una serie di atti unilaterali, pericolosissimi nelle possibili conseguenze, che Trump ha deciso di sostenere. Dopo Gerusalemme, adesso c’è il taglio dei finanziamenti americani all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che da decenni aiuta sul piano alimentare, sanitario e scolastico i profughi palestinesi, da Betlemme a Gaza, da Damasco a Beirut. Un modo, quello di Trump, nuovo e pericoloso di affrontare il problema dei profughi palestinesi. Anche di questo si parlerà a Bruxelles nei prossimi giorni, in una riunione straordinaria dei paesi donatori verso la Palestina.
C’è da sperare che al ruolo di pompiere si sovrapponga la coscienza che i paesi europei hanno un ruolo politico da svolgere in Palestina, in Medio Oriente, e di fronte all’Iran. Pence a Gerusalemme su quest’ultimo punto ha detto che l’amministrazione Trump vuole rovesciare l’intesa sul nucleare raggiunta da Barack Obama con l’Iran. Il vicepresidente americano ha raccolto il sostegno entusiasta di Netanyahu. Quell’intesa con l’Iran, però, è stata sottoscritta anche dai paesi europei e dall’Onu. Forse è tempo, prima che sia troppo tardi, che anche su questo argomento i paesi europei, singolarmente e se possibile nel loro insieme, esprimano il proprio giudizio.