“La prossima guerra” (The next war) è il titolo che campeggia sull’ultima copertina dell’Economist. I tanti “pezzetti” della guerra mondiale (la terza) evocata da papa Francesco ci sono tutti, dalle operazioni della Turchia sul fronte siriano alla Nord Corea di Kim Jong-un fino ai dazi Usa sui prodotti cinesi. E l’attentato a Kabul di sabato scorso è solo l’ultimo episodio di una delle tante potenziali linee di frattura che percorrono il continente eurasiatico, compresa l’Italia che si appresta a votare il 4 marzo, secondo Francesco Sisci, editorialista di Asia Times e docente nella Renmin University of China.



Sisci, quella dell’Economist le pare un’analisi obiettiva?

Si raccontano in dettaglio le preparazioni militari di una guerra probabile più che possibile, contro Cina in primo luogo e Russia in secondo luogo. Sono fatti obiettivi che vanno interpretati e io li leggerei come l’annuncio semi-ufficiale dell’inizio della seconda guerra fredda, un mosaico i cui pezzi, uno dopo l’altro, abbiamo discusso e tentato di posizionare varie volte.



Anche papa Francesco lo dice da tempo. 

Il papa parla da anni di terza guerra mondiale a pezzi. forse in questi giorni stiamo assistendo a un cambio di marcia: si tratta di una nuova guerra fredda.

Dove sta la differenza?

La guerra fredda tipicamente è composta da due elementi, militare ed economico e oggi vediamo entrambi. Dal punto di vista militare c’è un riarmo in atto e una richiesta da settori di vari paesi di maggiori investimenti in nuove tecnologie di guerra. Questa rincorsa tecnologica sta già portando a maggiori spese e investimenti in armi, con la miccia sempre accesa della Nord Corea.



E sotto l’aspetto economico?

La settimana scorsa gli Usa hanno imposto nuove tariffe commerciali contro pannelli solari e lavatrici di produzione cinese. D’altro canto abbiamo visto nei mesi passati una svalutazione del dollaro, nonostante i tassi di interesse e crescita più alti in Usa rispetto all’Europa. 

E la Cina?

I cinesi stanno vendendo dollari e allontanandosi dal loro abbraccio con la moneta americana, che è stata l’architrave del commercio cinese negli ultimi 40 anni. Inoltre la Cina si sta barricando finanziariamente e sta rendendo più difficili le esportazioni di capitali. Pechino cioè teme attacchi finanziari delle borse globali, che potrebbero ritirare rapidamente investimenti dalla Cina spingendo una crisi di credito, e si prepara contro di essi.

Questa combinazione di fattori a che cosa potrebbe dare luogo?

La guerra fredda si alimenta della minaccia di una o più guerre calde. Vedremo un aumento di tensioni su tutto il fronte eurasiatico, che non necessariamente precipiteranno in una guerra mondiale. Al tempo stesso oggi ci sono molto più di ieri paesi dotati di armi nucleari e la possibilità di errore è moltiplicata. Quindi è possibile pensare all’eventualità di una “guerra nucleare limitata”, un ossimoro nella realtà delle cose. Ma sempre più strateghi da ogni parte la prendono in considerazione contro la Nord Corea sulla base di questa considerazione: meglio milioni di morti oggi che decine di milioni di morti domani, perché se Pyongyang non viene fermata, anche ad altissimi costi, le possibilità di un conflitto più grande e sanguinoso aumentano.

Come si colloca in questo contesto quanto sta avvenendo in Afghanistan (sabato 95 morti a Kabul, una settimana fa l’Hotel Intercontinental)? Oltretutto il paese è un buco nero nella direttrice della nuova via della seta cinese.

L’Afghanistan è il centro del mondo dai tempi di Alessandro Magno che fu fermato o si fermò qui, e in tempi molto più recenti Brzezinski lo individuava come centro del grande scacchiere. Da qui è partita la fallita operazione americana del 2002 che poi ha portato anche alla seconda guerra in Iraq e alla serie di disastri mediorientali che conosciamo. Oggi con l’avvio della nuova via della seta cinese e la nuova frizione tra Russia, Iran, Pakistan, India e Usa, dove tutti sono contro tutti, si è riaperto in chiave contemporanea quel grande gioco che una volta era tra Inghilterra e Russia. In particolare India e Pakistan si combattono qui, con il governo di Kabul in posizione filo-indiana e anti-pakistana, mentre Islamabad sostiene i ribelli. Una volta gli Usa erano con il Pakistan, oggi sono sempre più con l’India. La confusione è tale che è difficile pensare che ci saranno soluzioni facili e immediate.

Questo complesso scenario ha anche una ricaduta italiana?

Assolutamente sì. Come nella prima guerra fredda il mercato europeo fu un blocco contro l’avanzata della Russia, oggi la Ue potrebbe svolgere lo stesso ruolo. In ciò, come l’Italia nella prima guerra fredda fu commissariata contro i russi (che allora sostenevano il Pci) oggi i partiti italiani che sono contro la Ue (quindi oggettivamente con Mosca) saranno commissariati. O i partiti quindi cambiano linea, come fece il Psdi e poi il Psi, oppure saranno ostracizzati. In questo processo di ostracismo il Pd di Renzi sarebbe quello messo meglio, ma non capisce il quadro generale, e quindi non riesce nemmeno a capire come usare questa carta.

Ostracizzati è una cosa, commissariati è un’altra. Sulla prima non c’è dubbio, e l’ostilità dell’establishment euroatlantico è ciò che essi vogliono per incrementare il consenso. La seconda è più improbabile: commissariati da chi? 

Non ho idea di come concretamente si interverrà, ma se la prima guerra fredda è un esempio, Ue e Usa appoggeranno chiunque assuma una posizione chiaramente filo-europea e anti-russa. Vista la storia dell’Italia, tutti i partiti italiani, che non sono celebri bastioni di coerenza, faranno a gara per legarsi al nuovo carro dei vincitori di Bruxelles. Il problema è chi sceglierà Bruxelles in questo mazzo di convertiti, e chi verrà considerato troppo sospetto per i suoi trascorsi. Oggi nella lista dei sospetti ci sono il M5s e la Lega, per i recenti rapporti con Mosca. Ma neanche Berlusconi, che ha fatto e forse fa ancora affari con Putin, è completamente sdoganato. In questo Berlusconi però appare più fortunato perché l’opinione pubblica occidentale è disperata con Renzi e il suo Pd.

Lei ha detto che il Pd renziano sarebbe in una posizione favorevole, ma per fare cosa?

Il Pd di Renzi è quello che ha avuto meno trascorsi e “inciuci” con la Russia e quindi potrebbe ergersi a bastione dell’atlantismo e dell’europeismo, ma in realtà non pare strutturato per comprendere a pieno le nuove dinamiche. In realtà Prodi, europeista, atlantista moderato, dovrebbe essere valorizzato e usato positivamente dal partito e dal paese in questa fase. Ma lo sarà?

Cosa farà invece papa Francesco?

Nella prima guerra fredda la Chiesa si schierò da una parte. Oggi forse potrebbe continuare a fare ciò che ha fatto finora con Francesco, rinunciare a schierarsi politicamente e difendere la pace. In questo gli sforzi della Santa Sede verso la Russia e la Cina sono acqua benedetta che limita il fuoco in atto, mentre altri fanno di tutto per alimentarlo. Però questo è un cammino difficile, delicatissimo, anche perché la Chiesa può buttare acqua sul fuoco se si mantiene correttamente equidistante dagli Stati Uniti rispetto a Cina o Russia. Ma è anche una questione di tempi: siamo come eravamo nel 1947, si vedono i contorni della guerra fredda ma la guerra non è ancora scoppiata. Se si scivola sempre più verso una tensione vera, la Chiesa rischia di essere tirata sempre di più da una parte.

Torniamo alle relazioni tra Cina e Usa. Perché secondo lei sono così a rischio?

La tensione è aumentata ed è destinata ad aumentare per due percezioni divergenti della realtà. Gli antagonisti di Pechino vedono il paese circondato, fanno i conti sulla carta di numeri e dimensioni economiche e pensano di potere e di dovere stringere oggi la Cina prima che la sua economia e la sua forza militare cresca ancora. 

E Pechino?

Pechino invece vede le spaccature all’interno dell’America e nelle alleanze commerciali e militari americane, e quindi pensa, arroccandosi e guadagnando tempo, di poterla spuntare. Cioè entrambi gli schieramenti pensano di poter vincere in un confronto. Ma queste analisi divergenti sono quelle che tipicamente portano a uno scontro.

(Federico Ferraù)