Prosegue l’offensiva turca “Ramo d’ulivo” (nel distretto di Azaz, a est della regione di Afrin) contro le varie formazioni armate curde, tutte considerate da Ankara organizzazioni terroristiche e ree di aver istituito uno stato autonomo al nord della Siria con l’aiuto degli americani.
Il conflitto che dura ormai da una decina di giorni si fa sempre più cruento con centinaia di morti da ambo le parti. Tutto questo avviene mentre migliaia di civili stanno fuggendo dalle loro abitazioni dirigendosi verso Aleppo e verso la parte siriana del cantone di Afrin presidiata dall’esercito governativo, dove sono stati allestiti campi profughi.
Le tensioni stanno aumentando anche tra gli Stati Uniti e la Turchia, visto che gli attacchi turchi stanno mettendo a serio rischio le basi Usa che presidiano la zona occupata dai curdi a nord della Siria. In particolare, la situazione si sta facendo particolarmente critica nella città di Manbji dove sono presenti ben due basi statunitensi (delle 14 presenti sul territorio siriano). Si tratta della base Baza Sirin che che si trova nella parte orientale della città di Manbij e della base Manbij. Quest’ultima è la base più strategica presente in Siria, aperta essenzialmente per impedire la penetrazione del legittimo esercito nazionale in quella regione.
Ebbene, la città di Manbji (importante nodo commerciale e strategico al nord della Siria nel governatorato di Aleppo) è il prossimo obiettivo dichiarato delle forze turche. Per questo, il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha richiesto agli Stati Uniti di abbandonare l’area e di interrompere il sostegno ai curdi siriani.
E a seguire, il generale Haitham Afeysi — vicecapo del Free Syrian Army (Fsa) — al seguito dell’esercito turco, ha reiterato la richiesta di Cavusoglu in maniera ancora più esplicita: “Consideriamo Manbij una città di importanza strategica come Afrin”, ha detto. E ha così proseguito: “quindi, come l’esercito nazionale siriano (Fsa), abbiamo dichiarato guerra alle formazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) in Manbij”. Afeysi ha inoltre aggiunto che “Gli Stati Uniti sono un problema più pressante rispetto al Pkk (…) perché [gli Usa] hanno praticamente creato il Pkk da zero e lo hanno impiantato nella regione”, per cui “in una situazione in cui le forze armate turche e la Fsa devono entrare a Manbij, gli Stati Uniti, come è stato fatto in Afrin, devono smettere di sostenere i terroristi. Se non lo fanno, combatteremo contro le forze americane schierate in quella regione” (quotidiano Yenisafak).
E’ chiaro che in altre circostanze gli Stati Uniti avrebbero già reagito per difendere i propri alleati, ma la Turchia è la seconda forza della Nato e rappresenta anch’essa un insostituibile alleato strategico. Nello stesso tempo, Washington in Siria ha bisogno della carta curda, perché la presenza di un territorio autonomo sottratto alla sovranità del governo siriano consente di esercitare pressioni sulla situazione in Siria dall’interno. Vale a dire, fornisce il mezzo per riunire le decine di forze ribelli, e rilanciarle sotto un’unica bandiera contro Assad.
Per queste ragioni Washington ha giustificato l’avanzata turca, ma a patto che fosse “proporzionata e limitata nel tempo”. Ma la richiesta, rinnovata mercoledì scorso dal presidente americano Trump durante una conversazione telefonica con il suo omologo turco Erdogan, è stata decisamente respinta. A questo punto, Erdogan è stato messo in guardia sul serio rischio di un conflitto diretto tra le due nazioni.
Degno di nota che da parte europea non c’è stata finora alcuna reazione sostanziale se non le proteste di Berlino e Parigi che si sono impegnate “a fermare un’ulteriore escalation, a consentire l’accesso umanitario e proteggere la popolazione civile, che ha la massima priorità”, ma senza specificare come. Da parte americana c’è più interesse, ma — come già detto — tale preoccupazione consiste solo nel non poter più usare la leva curda.
La cosa è così palese che i funzionari curdi di Afrin hanno deciso di chiedere aiuto a Damasco. A tale richiesta, Il governo siriano non ha dato risposte ufficiali ma secondo indiscrezioni, avrebbe proposto come condizione il disarmo delle milizie curde, lo schieramento dell’esercito siriano ed il ritorno del cantone sotto l’autorità di Damasco.
E’ sullo sfondo di queste gravi tensioni che è iniziato ieri il Congresso del dialogo nazionale siriano a Sochi (29-30 gennaio). La sua riuscita non sarà determinata dalla ritrosia più o meno pronunciata delle milizie ribelli. Queste ultime infatti — come nel caso delle milizie armate al seguito dell’esercito turco ad Afrin — eseguono pedissequamente gli ordini dei vari referenti esterni che le supportano. L’ago della bilancia invece è costituito dalla politica statunitense che continua ad opporsi fermamente alle iniziative di pace sostenute dai russi e dagli iraniani, nonostante siano state finora le uniche ad essersi rivelate valide.
Questo stato di cose ha dato i suoi frutti: nessun gruppo legato all’opposizione armata si presenterà a Sochi. Naturalmente questa decisione la dice lunga sulla reale autonomia e rappresentatività dei gruppi armati, visto anche che a rappresentare la società civile al Congresso ci saranno comunque 1600 rappresentanti di tutte le fedi, partiti e movimenti esistenti in Siria. E’ da sperare allora che comunque il Congresso del dialogo nazionale siriano abbia successo, a dispetto delle varie pressioni per boicottarlo.
In tal senso è molto positivo che il segretario generale dell’Onu Guterres giudichi l’incontro “un importante contributo al processo di risoluzione del conflitto armato siriano” e che perciò vi abbia inviato il suo delegato speciale Staffan de Mistura.