Il Libano ha deciso di iniziare l’esplorazione e lo sfruttamento del giacimento sottomarino di petrolio e gas nelle sue acque territoriali, ma confinante con un’area, altrettanto ricca di idrocarburi, sulla quale esiste un contenzioso con Israele. Dei cinque blocchi in cui è stato diviso il giacimento ne sono stati assegnati finora solo due a un consorzio formato dalla francese Total, la russa Novatek e l’italiana Eni. Forse non a caso, il primo incontro privato al Forum di Davos del primo ministro libanese Saad Hariri è stato con Paolo Gentiloni.



Per il premier libanese, Davos ha rappresentato un palcoscenico molto importante, dopo le sue dimissioni decisamente irrituali date dall’Arabia Saudita, l’intervento di Macron, il viaggio a Parigi, il rientro in patria e il ritiro delle dimissioni. Una storia che presenta tuttora lati oscuri, ma che ha fatto reagire i libanesi di fronte alle imposizioni saudite, ricreando l’unità attorno ad Hariri tra le composite forze politiche del Paese. Un risultato certamente non gradito a Riyad, dato che ha portato a un sostanziale rafforzamento di Hezbollah, il nemico per eccellenza. La gestione della crisi è avvenuta infatti con una sostanziale alleanza tra gli sciiti e il presidente maronita, Michel Aoun, e Hariri è rimasto premier come “garante” della situazione verso i sauditi. Una soluzione che consente di affrontare con maggiore tranquillità le prossime elezioni generali del prossimo maggio, le prime dal 2009.



Alla base dell’accordo tra le varie e numerose forze politiche libanesi è la ripresa della “politica della dissociazione”, enunciata nel 2015 dal precedente primo ministro Tammam Salam. L’obiettivo di questa politica è evitare il coinvolgimento del Libano nei conflitti della regione, posizione del tutto comprensibile, dato che il Paese dei Cedri ha al suo interno una vasta gamma di queste contrapposizioni. Le dichiarazioni di Hariri a Davos si inseriscono in quest’ottica e particolarmente importante è ciò che il premier ha detto sulle relazioni con Arabia Saudita, Iran e Israele.



Del tutto prevedibile la descrizione positiva delle relazioni con i sauditi, che Hariri ha impostato anche su un piano personale — il premier è anche cittadino saudita e ha nel Paese diretti interessi economici. Al di là di queste posizioni personali, per il Libano è essenziale mantenere buone relazioni con l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo, dove lavorano centinaia di migliaia di libanesi. Le rimesse di questi emigrati sono preziose per un’economia che dimostra sempre più affanno, appesantita anche da un milione di profughi siriani.

Meno “amichevoli” le dichiarazioni sull’Iran, tuttavia lontane dai toni accusatori tenuti durante la permanenza a Riyad e improntate a un pragmatico realismo. “L’Iran è un Paese con cui abbiamo bisogno di trattare” ha detto Hariri, aggiungendo: “Ogni nazione deve capire che ha bisogno di trattare con l’Iran”. Un richiamo a Trump ma anche ai sauditi. Hariri ha mandato un segnale anche a Hezbollah, quando ha affermato di volere, come primo ministro, i migliori rapporti con l’Iran, ma questi devono essere tra Stato e Stato, non con singole parti del Paese, citando esplicitamente l’organizzazione sciita.

L’esercizio di equilibrismo politico è venuto meno nei confronti di Israele, definito come l’unica vera minaccia, che potrebbe scatenare un’altra guerra contro il Libano, magari per un errore di calcolo. E ha ricordato il conflitto del 2006, quando Israele tentò di eliminare Hezbollah, e la tuttora irrisolta questione palestinese, accusando l’attuale governo israeliano di non volere la pace, a differenza di molti israeliani. Da parte sua, negli ultimi giorni il governo israeliano ha alzato i toni, accusando l’Iran di costruire una fabbrica di missili di alta precisione nel Libano controllato da Hezbollah. Il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, pur affermando di non volere un’altra guerra contro il Libano, ha dichiarato che Israele non premetterà che ciò avvenga.

La questione è stata anche al centro dell’incontro di lunedì a Mosca tra Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin, in cui il premier israeliano ha espresso a quello russo le proprie preoccupazioni per la costante “avanzata” iraniana nella regione e la decisione di impedire che Hezbollah venga ulteriormente e più pesantemente armata da Teheran. Non è dato sapere quale sia stata la risposta di Putin, ma l’incontro sottolinea ancora una volta come l’interlocutore principale, se non l’arbitro, nelle questioni del Medio Oriente sia diventata Mosca. Con buona pace degli Usa, pro o contro Trump che siano.

Tra questi tuoni di guerra, si può paradossalmente intravvedere la possibilità di una soluzione ragionevole, perché da una soluzione pacifica dei rapporti con il Libano, Israele trarrebbe molti vantaggi, militari, politici ed economici. Anche in Iran, come dimostrano le recenti manifestazioni popolari, le avventure all’estero cominciano a essere mal tollerate di fronte a una situazione economica critica. Questo sembra essere anche uno dei punti di contrasto tra la parte moderata degli ayatollah, guidata da Rohani, e quella estremista.

Un passo iniziale dovrebbe essere la cessazione dello stato di guerra tra i due Paesi: il Libano non ha mai firmato un trattato di pace con Israele, come fatto invece da Egitto e Giordania. E se sull’Iran tocca a Putin intervenire, qui la palla passa a Trump, in credito verso Netanyahu per la sua decisione su Gerusalemme capitale. Una nuova esplosione del Libano non servirebbe a nessuno, mentre una pace, sia pure “armata”, avrebbe risvolti positivi per tutti. E questa volta, anche il petrolio potrebbe concorrere alla pace.