Mentre il numero dei morti è salito ancora, e soprattutto sale quello degli arrestati (oltre 450) che rischiano anche la pena di morte, il generale iraniano Mohammad Ali Jafari, capo dei Pasdaran, le Guardie della rivoluzione, ha annunciato ieri “la fine della sedizione”. Questo dopo che alcune migliaia di sostenitori del regime erano scese in piazza a Teheran. Sempre secondo il generale i manifestanti dei giorni scorsi si sarebbero ridotti a poche migliaia e nelle prossime ore non se ne vedranno più. Secondo Andrea Margelletti, presidente del CeSi (Centro Studi Internazionali) “se è vero che nessuno aveva mai pensato che in Iran si potesse arrivare a una rivoluzione, è altrettanto vero che l’atteggiamento dei paesi occidentali, Stati Uniti in primis, è un atteggiamento criminale, che rifiuta il dialogo con i riformisti iraniani spingendo gli ultraconservatori a rafforzare il potere”.
La valutazione che è stata fatta dai maggiori analisti italiani è che le manifestazioni in Iran non erano di tipo politico, dunque non erano rivoluzionarie, ma solo di tipo economico. Lo pensa anche lei?
Assolutamente no, né io né gli analisti del mio istituto. Naturalmente dietro quanto abbiamo visto c’è un profondo malessere economico, ma si tratta di una protesta di tipo strutturato contro l’establishment della Repubblica islamica, una protesta popolare formata soprattutto da giovani intorno ai 25 anni, che non erano presenti né nel 1979 alla rivoluzione khomeinista, né alle proteste del 2009 e che non hanno ovviamente neanche vissuto l’iconografia della lunga guerra contro l’Iraq.
Di chi si tratta allora?
E’ un terzo polo, che si differenzia dal duopolio classico iraniano conservatori-progressisti, ed è una forza dirompente. Basta vedere la mappa delle aree dove le proteste sono iniziate, zone tradizionalmente refrattarie al potere centrale.
Dunque si tratta di una rivolta contro tutto quello che significa il regime, istituzione islamica compresa?
E’ una protesta dei giovani che non si identificano con l’attuale regime. Chi parla di una rivolta solo economica dice qualcosa di imbarazzante. Dimentica che ci fu un signore in Tunisia che si diede fuoco perché il governo aveva alzato le tasse e che questo episodio portò alle primavere arabe. Chiariamoci: questi ragazzi non vanno a farsi ammazzare per abbassare l’aliquota di un punto. Sarebbe come dire che gli studenti di piazza Tienanmen protestavano contro il sistema universitario cinese. Ridicolo.
La scintilla di tutto però è stata economica. La gente protestava perché il paese spende soldi in Siria, a Gaza, in Libano invece che a casa.
E’ stata la scintilla, è una chiave di lettura, che però vale per tutti i paesi del mondo. Quando c’è una crisi economica in ogni nazione c’è una spinta alla chiusura verso l’interno, guardiamo l’esempio di chi in Italia dice che si spendono soldi per i migranti invece che per gli italiani che sono costretti a dormire in macchina. E’ lo stesso concetto dietro all'”America First” di Donald Trump.
Dell’accusa di interferenze straniere mosse dal presidente Rohani che ne pensa? Viene subito in mente l’Arabia Saudita.
Non penso proprio che sia plausibile. Facilmente si dà la colpa fuori per non riconoscere le colpe che hai tu, è un sistema che si usa da sempre e che usano tutti.
Il capo dei Pasdaran ha annunciato che le proteste sono finite, è davvero così? Che sviluppo pensa possa avere la situazione?
Non ho la sensazione che ci sarà una rivoluzione. Gli iraniani hanno votato da poco per l’ennesima volta i riformisti. Trovo invece estremamente stupida la scelta occidentale di non supportare i riformisti iraniani, buttando via una grandissima opportunità, mettendoli così in difficoltà e dando la possibilità agli ultra-ortodossi di tornare al potere, in modo che si possa dire che l’occidente ha di nuovo un nemico su cui puntare.
Si riferisce alla decisione di Trump di rinegoziare l’accordo sul nucleare?
Trovo quella decisione una follia. Nel momento in cui assistiamo a una perdita di autorevolezza dell’occidente e in cui c’è bisogno che il mondo guardi a noi non come a un nemico ma come a un faro di civiltà, noi distruggiamo degli accordi che quello stato ha dimostrato di mantenere. Lo dicono i nostri osservatori che è così, non lo dicono loro. Un atteggiamento del genere distrugge la nostra autorevolezza. E poi vogliamo imporre degli accordi a Kim Jong-un. Con quale credibilità di rispettarli?
In questo modo si distrugge anche ogni possibilità di dialogo.
Esattamente. Gli Stati Uniti sono più che una grande nazione, sono una idea a cui tutto il mondo guarda, tutti abbiamo bisogno degli Usa, ma quando il livello della discussione arriva a quello da bar, che cosa stiamo rappresentando agli occhi del mondo?
Intende il dibattito a colpi di chi ha il pulsante nucleare più grande dell’altro?
C’è poco da scherzare, questo livello della discussione è preoccupante, fa paura.
(Paolo Vites)