Son quasi passati cinquantacinque anni dalla firma, il 22 gennaio 1963, del trattato franco-tedesco, siglato da due Paesi che uscivano quasi storditi dalla fine della Seconda guerra mondiale. La Francia, con la sconfitta di Hitler, di Mussolini e di Hirohito, ritrovava la sua unità istituzionale che aveva drammaticamente perduto con il tradimento di Petain e il regime di Vichy. Perché di questo si era trattato, non solo di una sconfitta militare dalle drammatiche dimensioni, ma altresì di una sconvolgente resa culturale: erano i valori della Rivoluzione francese che s’erano infranti, e con essi si era aperta una ferita che, come le vicende dell’Algeria, è stata rimossa, ma che segnò invece nel profondo la storia francese. Tutt’affatto diverso la sorte della Germania: fu divisa tra i vincitori e anche quando, già alla fine degli anni Quaranta del Novecento, iniziò a intravedersi la possibilità di una pacificazione tra le due grandi culture dominatrici dell’Europa, ebbene le ferite di una divisione erano assai profonde.



Si era nel pieno, del resto, della guerra civile europea che rendeva complicatissima e ancora poco compresa la situazione storica del cuore umanistico del mondo intero, ossia di quel plesso di nazioni da cui era scaturito con Carlo Magno il Sacro romano impero, e che solo le guerre di successione spagnola settecentesche portarono a una vera e propria disgregazione. Disgregazione in cui viviamo ancora oggi e che l’Unione europea ha soltanto scalfito, ma non è assolutamente riuscita a superare dopo la caduta degli imperi austro-ungarico, zarista e ottomano, avvenuta a seguito della Prima guerra mondiale. Del resto la guerra civile europea non consentì di superare le divisioni secolari franco-tedesche. Eppure l’Unione Sovietica non era solo una minaccia militare contro le democrazie che le borghesie e i movimenti operai avevano costruito a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, insieme a un’Inghilterra che guardava con aria distaccata il Continente. Quel continente che se ne distaccò istituzionalmente decidendo di applicare il Codice napoleonico in quell’intreccio tra amore per l’Inghilterra e timore di una Prussia amata ma sempre temuta, come ci dimostrano bene i numi tutelari del costituzionalismo, Benjamin Constant e Madame De Stael.



L’Unione Sovietica era anche un’alternativa rispetto al regime capitalistico di proprietà e la brutalità staliniana, negli anni dopo Yalta, dalla defenestrazione di Benes e poi la repressione degli operai tedeschi nel’53 , degli intellettuali e degli operai ungheresi nel’56, e ancora degli intellettuali e degli operai cecoslovacchi nel’68, dimostrarono che le armi e la dittatura burocratica difendevano non solo un regime politico ma un assetto di proprietà, una società civile totalmente alternativa a quella europea e nordamericana.

Francia e Germania democratica (ossia ciò che era rimasto della Germania e che guardava a Occidente) erano obbligate a cooperare, a collaborare, a ostacolare l’espansione di un regime di proprietà che governava la stragrande maggioranza del territorio euro-asiatico. Eppure già nel 1954 si doveva registrare il fallimento della Comunità europea di difesa (Ced), propugnata dalla Francia così da diluire in un esercito europeo integrato quello che allora ancora si temeva, il riarmo della Germania. Tutto si risolse con l’integrazione della Germania occidentale nella Nato cosicché, con una Francia unita e nuovamente consapevole del suo destino, ci si avviò via via a considerare la Germania un partner strategico possibile, così da aumentare il proprio vantaggio competitivo, da parte francese, tanto nei confronti degli Usa, quanto soprattutto nei confronti del Regno Unito.



Gli studi dimostrano che l’interesse della Francia per gli altri stati europei era quello che è oggi: sempre debolissimo a esclusione dell’Italia, non solo e non tanto perché essa con la Germania era la sede di importanti basi Nato, quanto per il fatto che la sua collocazione geografica, assieme alla sua potenza economica, ne faceva una terra di conquista, sia per il suo potenziale nazionale, sia per la sua presenza africana, come già Cavour aveva benissimo compreso e come noi tutti recentemente abbiamo avuto motivo di riscoprire con le vicende libiche, e ancor più recentemente, con quelle del Niger.

Il trattato del 1963 fu un importante passo avanti per superare storiche differenze, ma non segnò l’inizio di una vera forma di collaborazione fra le due nazioni. E questo perché, pur in presenza del temuto orso russo, l’atteggiamento franco-tedesco nei confronti degli Usa che l’orso di fatto tenevano incatenato, era assai diverso. De Gaulle, che aveva già nel ‘58, appena asceso alla presidenza della Repubblica, ostacolato l’ingresso del Regno Unito nella Comunità economica europea, inseguiva con determinazione un disegno neo-imperiale: l’Europa dall’Atlantico agli Urali, convinto che, più che la deterrenza militare e il dominio, l’orso si potesse placare con l’egemonia e la cooperazione economica, sino, non tanto a poter fare a meno della Nato, ma condizionandone profondamente le strategie, le direttive, le decisioni, forti del possesso dell’arma nucleare. E il fatto che il Regno Unito la possedesse era un’altra buona ragione perché esso dalla Cee dovesse essere escluso. Del resto quest’ultimo, detto per inciso, sul piano economico non sapeva che farsene dei veti gaullisti, come dimostrava l’esistenza dell’Efta (Uk, Commonwealth, Scandinavia e Portogallo) fino al 1973.

Il trattato che si firmò nel ‘63 all’Eliseo conteneva misure di cooperazione bilaterale sostanzialmente nei campi di cui si fa un gran parlare oggi e va sottolineato che in tema di difesa si prevedevano, e mai si attuarono, decisioni assai più stringenti di quelle di oggi e di un futuro quale quello che si prevede nel trattato. Giova ricordare qui, ora che siamo nel travaglio della ricercata grande coalizione tedesca, con una socialdemocrazia riluttante, che proprio quello che doveva unire, divise a quel tempo i tedeschi. Mi riferisco al fatto che mentre in Francia lo si ratificò tranquillamente, in Germania la socialdemocrazia impose, contro la volontà di Adenauer, il cosiddetto “preambolo”, ossia un’aggiunta in cui si riaffermava l’appoggio della Germania alla Nato e alla Cee.

De Gaulle capì l’antifona e considerò questa proposta socialdemocratica, che trovava in Ludwig Erhard, successore di Adenauer, un’adesione incondizionata, che si trattava, di fatto, di far rimanere lettera morta un trattato appena firmato. E in uno di quei suoi enfatici esercizi dialettici pronunciò la famosa frase in cui si diceva che se il trattato dell’Eliseo fosse rimasto lettera morta, non sarebbe stato un tragedia. Si apriva così quella fase totalmente nuova e totalmente diversa che vide la Germania ritornare al centro del destino europeo, piuttosto che la Francia. E proprio sul terreno dello scontro-incontro con l’Urss. Furono gli anni della Ostpolitik che videro i liberali tedeschi, con Walter Scheel, scrivere una delle pagine più alte della loro storia, unitamente al ruolo svolto da Willy Brandt che, non a caso, ricevette, per tale politica, il Premio Nobel per la pace nel 1971.

Come si vede la situazione era assai diversa da quella di oggi e, se c’è una cosa su cui dobbiamo meditare, è se le profonde e radicate differenziazioni franco-tedesche potranno essere superate oggi, quando l’Urss è crollata e la guerra civile europea è terminata. Ma se c’è una cosa che non finisce mai è la geografia e con essa la storia, checché ne dicano e ne pensino la disciplina delle relazioni internazionali e la storiografia. E questo pensiero è molto importante oggi che la politica Usa disvela, sin dai tempi della presidenza Obama (che affermava chiaramente che il nuovo orizzonte statunitense erano l’Asia e il Pacifico, e che l’Europa avrebbe dovuto risolvere i suoi problemi da sola), un allontanamento dalla Germania e un riavvicinamento invece alla Francia, mentre gli Usa stessi continuano una politica di contrasto e di contenimento della Russia e della Cina.

Dunque oggi non potrebbe manifestarsi una situazione simile a quella della seconda metà degli anni Ottanta del Novecento. A quel tempo, i crescenti deficit di bilancio dell’amministrazione Reagan e l’accordo di Reykjavik con Gorbaciov, del 1986, sulla dismissione dei missili balistici, senza che gli alleati europei fossero consultati, rovesciando così una strategia della Nato perseguita per anni, indusse Kohl a mostrare interesse a nuovi rapporti franco-tedeschi quale possibile alternativa alla stessa Nato. Ma anche allora i francesi non dismisero le diffidenze verso la Germania e condussero una politica assolutamente imprevista, imponendo che negli accordi di controllo degli armamenti fossero incluse le forze nucleari britanniche e francesi.

Naturalmente si comprende bene che quello che fu annunciato nell’87, con grande clangor di buccine, ossia la famosa brigata franco-tedesca di circa 4000 uomini che non avrebbe fatto parte della struttura di comando integrato della Nato, era soltanto una foglia di fico che nascondeva, di fatto, la continuità delle diffidenze, così come lo fu quel consiglio bilaterale di difesa e sicurezza, con sede a Parigi, che fu ratificato da Kohl e Mitterand, come protocollo ufficiale del trattato dell’Eliseo nel 1988. Oggi di fatto siamo in una situazione simile: piuttosto che la cooperazione, è in corso una competizione e questa volta su tre fronti. Il primo è quello del rapporto con gli Usa, con atteggiamenti opposti, di positiva cooperazione con Trump da parte di Macron e di conflitto profondo da parte della Merkel. Il secondo è quello dell’Africa subsahariana, dove i francesi la fanno da padroni, e dove i tedeschi contano quasi nulla perché non sono intervenuti nelle guerre mesopotamiche, essendo ancora privati di un esercito. Il terzo è nei confronti dell’Europa tutta e delle sue istituzioni, con il clonato Macron che sale sulla Piramide, mentre la signora Merkel è rimasta senza il grembiulino.

Buon trattato franco-tedesco! Continua il gioco di specchi in un’Europa unita sempre più divisa.