Secondo il South China Morning Post la Cina ha riaperto un dossier, quello di Taiwan, che si vorrebbe volentieri tenere nel cassetto. E come insegna la Nord Corea, il movimento di un singolo pezzo sulla scacchiera interessa anche tutti gli altri. “Non stiamo parlando di uno qualsiasi delle centinaia di articoli a tema politico-strategico che escono quotidianamente in Asia” spiega al sussidiario Francesco Sisci, esperto di questioni strategiche e docente nella docente nella Renmin University of China.
Chi è l’autore, Deng Yuwen?
Non è un falco, anzi, è noto in Cina per le sue posizioni liberali, a favore delle riforme democratiche. La sua analisi è fredda, basata sui fatti: spiega i passaggi oggettivi di una china pericolosa. E’ probabile inoltre che Deng non parli solo a titolo personale. Oggi presiede un think tank governativo, ma prima lavorava alla Scuola centrale del Partito comunista cinese, diretta fino a cinque anni fa dal presidente Xi Jinping.
Veniamo al punto. Cosa sta succedendo?
Deng apre una finestra su una preoccupazione strategica della Cina: lo stringersi della morsa americana sul paese. Infatti — dice in sostanza Deng — se la Cina è un avversario strategico degli Usa, come ha scritto il recente rapporto del Consiglio per la sicurezza nazionale, e quindi l’alleanza Usa con Taiwan potrebbe essere rafforzata e l’isola venire usata come base per attività anti-Pechino, allora la Cina è costretta a reagire.
All’ultimo congresso del Partito Xi Xinping, parlando di una “nuova era” per la Cina, ha detto non solo di volere la riunificazione con Taiwan, ma ha anche fissato una data, il 2020. Perché Pechino vuole l’isola a ogni costo?
Perché il progetto cinese è qualcosa che assomiglia molto alle aspirazioni dell’Italia su Trento e Trieste nel 1915. Solo che gli Usa hanno avanzato l’ipotesi di stringere la cooperazione con l’isola, cosa che fa avanzare l’idea che Taiwan possa restare separata. Il 2020 è un anno importante perché ci sono le presidenziali a Taiwan e un partito potrebbe volere una dichiarazione unilaterale di indipendenza, cosa che sarebbe un insulto ad ogni ipotesi di riunificazione.
Quindi?
L’orizzonte della riunificazione, che in un primo tempo era per il 2050, cioè dopo il pieno ritorno di Hong Kong alla sovranità cinese che avverrà nel 2047, ora si abbrevia. Deng quindi avanza l’ipotesi che Pechino voglia riprendere il controllo di Taiwan con una guerra entro il 2020, l’anno delle elezioni sull’isola, l’occasione ideale per soffiare sul fuoco della propaganda anti-Pechino.
Perché il SCMP tira fuori la questione proprio adesso?
L’intervista arriva in giorni molti delicati in Asia. Ci sono state ampie proteste in Iran e alcuni settori americani tifano e lavorano contro il regime di Tehran. Questo, secondo ambienti di Pechino, potrebbe indicare una volontà americana di destabilizzare la Cina organizzando proteste contro il governo. Si teme cioè che le proteste in Iran siano state una prova generale di sommovimenti che potrebbero essere innescati anche in Cina.
La partita nordcoreana è aperta e non sappiamo come si risolverà. Sul serio la Cina pensa a un’opzione militare? Le conseguenze non sono calcolabili.
La Cina sta collaborando per stringere il cappio intorno a Pyongyang e ciò potrebbe portare anche dei dividendi a Pechino, ma è chiaro che ciò non rappresenterà la fine dei problemi della Cina. Essi sono più ampi, come abbiamo detto più volte. Quello che potremmo vedere è anche una reazione della Cina alle pressioni americane.
In che modo?
Gli Usa sostengono che la Cina stia attaccando il dollaro. Pechino ha concluso accordi per l’uso del renminbi negli scambi con il Pakistan e con alcuni paesi da cui importa petrolio. Intanto MoneyGram International e Ant Financial Service, il braccio finanziario di Alibaba, non hanno avuto il via libera del Comitato sugli investimenti americani per operare negli Usa. Ci sono tutte le condizioni per un rapido aumento di tensione tra Usa e Cina.
Questo avrebbe riflessi su tutti i dossier aperti della Cina?
Sì. Pechino sotto tali pressioni americane teme che la Santa Sede sia una specie di quinta colonna degli Usa, di conseguenza nelle trattative potrebbe chiedere garanzie maggiori proprio per evitare “interferenze straniere”. E’ un momento molto delicato per la diplomazia dell’arte e tutto ciò che riguarda il lavoro diplomatico sulla normalizzazione dei rapporti. Ci sarà la mostra di oggetti dei Musei Vaticani a Pechino, ma le trattative sono a un punto molto sensibile.
La diplomazia del ping pong, antesignana di quella dell’arte, contribuì molto a svelenire il clima e a cambiare i rapporti tra Usa e Cina.
Solo che allora Usa e Cina avevano un nemico comune e dichiarato, l’Urss, cosa che spingeva i due ad affrettare la normalizzazione. Oggi Santa Sede e Cina sono in un contesto internazionale che invece li spinge alla separazione. Se in America e in Europa, bacini storici dell’azione della Chiesa, c’è chi vuole un rapporto più intransigente, se non di chiusura, con la Cina, cosa che Pechino sospetta e teme, come fa il Vaticano a ignorare queste istanze? Se nel Pc cinese si teme che la Chiesa sia un’organizzazione infiltrata di nemici e c’è un’atmosfera ostile intorno alla Cina, come si fa a ignorare tali preoccupazioni? Potremmo essere in uno stallo.