Il 2017 è stato per l’Italia l’annus horribilis in tema di migranti. Dopo le polemiche interne, i tentativi di attuare misure spesso fallimentari (come quella di prendere accordi con milizie poco affidabili per contenere gli sbarchi) e i voltafaccia europei (primo tra tutti quello dell’ineffabile premier francese Emmanuel Macron) ora il governo italiano sembra aver capito che bisogna fare da soli, ricominciare da zero e, magari, imparare dai propri errori.



Sono due le strade che il premier Gentiloni ha voluto portare avanti con una certa convinzione e che, al di là delle evidenti criticità, possono comunque essere considerate un nuovo inizio per l’anno appena iniziato: l’invio di Ong nei centri di detenzione libica e una missione italiana in Niger, principale Paese di transito delle migliaia di disperati che tentano l’arrivo sulle coste libiche e da lì la partenza per l’Italia.



Iniziamo dalla prima misura: agire in maniera concreta sul terreno per supportare l’Unhcr e le altre organizzazioni internazionali nelle politiche dei rimpatri e dei ricollocamenti per tentare di “svuotare” i centri di detenzione e, nel frattempo, provare a rendere più umane le condizioni dei migranti racchiusi nei lager della costa libica. L’Aics — Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (ente del ministero degli Esteri) — ha recentemente pubblicato la lista delle Ong che, a partire dalla fine del gennaio, andranno a operare in tre centri di detenzione con interventi di prima emergenza e assistenza sanitaria, supporto alla popolazione e identificazione dei migranti richiedenti asilo. Ora, se è vero che chi ben comincia è già a metà dell’opera, è altrettanto vero che in Libia al momento sarebbero imprigionate tra le 400mila e le 700mila persone. Un’enormità rispetto a quelle presenti nelle strutture in cui andranno a operare le nostre organizzazioni umanitarie. Bisognerà fare molto di più ma, soprattutto, senza una preliminare stabilizzazione del quadro politico e di sicurezza del Paese tali azioni rischiano di essere non solo una goccia nel mare, ma anche piuttosto rischiose. 



E passiamo alla seconda attività, prevista già dalle prime settimane del nuovo anno: la missione in Niger. Il progetto, seppure in incubazione da parecchi mesi, si è concretizzato negli ultimi tempi. Proprio nel giorno in cui sono state sciolte le camere e si è chiusa la 17esima legislatura, il Consiglio dei ministri ha dato via libera alla missione nel Paese africano che, a pieno regime, prevede l’invio di 470 militari. Le regole di ingaggio non sono ancora state definite nel dettaglio: per ora ci si è limitati a dichiarare che l’attività dei nostri soldati sarà finalizzata al contrasto del traffico degli esseri umani e del terrorismo, mediante l’addestramento di personale locale. 

Non sarà dunque una missione combat. Tuttavia, così come in Libia, in Niger i traffici illeciti (droga, armi ed esseri umani) sono gestiti da organizzazioni criminali e gruppi jihadisti, contrastarli significa anche combattere. D’altra parte, come già ricordato, il Paese è il principale luogo di transito dei migranti che arrivano in Italia ed è innegabile che sia prioritario per il nostro interesse nazionale, molto più dell’Iraq o dell’Afghanistan da cui, peraltro, verrebbero trasferiti alcuni degli uomini che andranno ad operare militarmente; tema assai delicato per un’opinione pubblica molto sensibile nei confronti dell’invio di contingenti all’estero. Non a caso in merito al ruolo che potremmo avere in quest’azione sono state avanzate molte critiche. Parigi, infatti, è presente da più di quattro anni nel Sahel — con più di 4mila uomini — con l’operazione Barkhane che ha l’obiettivo di combattere gli jihadisti. E’ evidente che Macron intende mantenere il comando delle attività. Alla luce delle storiche rivalità franco-italiane, specie nel teatro libico, il problema lamentato da più parti è che l’Italia rischia di essere relegata al ruolo di gregario e, dunque, di aiutare concretamente i francesi regalando loro la partita. Critica più che condivisibile, specie in questo periodo che precede le elezioni, in cui l’autorità dei nostri politici risulta inferiore rispetto a quella dei francesi. 

Tuttavia, abbiamo delle carte da giocare. Facciamo un passo indietro. L’Italia oramai da tempo, nella più totale indifferenza europea e con un certo ostracismo d’Oltralpe, ha tentato di attuare una strategia per controllare i flussi dalla Libia. Il 2 febbraio dello scorso anno abbiamo siglato un accordo con Fayez al-Serraj per addestrare la guardia costiera libica, abbiamo poi sostenuto degli accordi con alcune tribù del Fezzan (luogo di transito dei migranti diretti sulla costa), infine abbiamo fornito aiuti economici al presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, per il controllo delle frontiere e la creazione di centri di accoglienza nel Paese. Certo, di errori ne abbiamo commessi molti ma, come si dice, solo chi non agisce non sbaglia mai. Nonostante tutto abbiamo sviluppato una strategia per la gestione dei flussi migratori che i nostri presunti partner europei non hanno. Far valere questa strategia con coerenza e determinazione potrebbe essere il solo modo per avere finalmente una voce in capitolo, non solo sulla questione migranti ma anche, con un po’ più di convinzione, nel Mediterraneo che tanto ci riguarda da vicino. Starà al nuovo governo che emergerà dalle elezioni del 4 marzo decidere il futuro dell’Italia nella sua “sponda sud”.