Le origini delle manifestazioni di protesta degli scorsi giorni in diverse città dell’Iran vanno ricercate nella difficile situazione economica del Paese, i cui costi sono pagati soprattutto dalle classi meno abbienti. Un articolo pubblicato sul sito della BBC cita l’aumento del costo della vita, l’ampliamento delle fasce di povertà, la contrazione nei consumi di base, compresi quelli alimentari. L’elevata disoccupazione giovanile è particolarmente preoccupante, dato che i giovani sotto i trent’anni rappresentano circa la metà degli ottanta milioni di iraniani. I dati ufficiali parlano di un tasso di disoccupazione del 12,4%, ma l’Organizzazione Internazionale del Lavoro lo stima attorno al 26,7, cui si deve aggiungere un 12,4% di sottoimpiego.
L’allentamento delle sanzioni seguito all’accordo sul nucleare voluto da Obama ha senza dubbio migliorato la situazione. Tuttavia, il notevole incremento del Pil è dovuto soprattutto alla ripresa delle esportazioni di petrolio, senza rilevanti effetti sull’occupazione. In questo contesto, le proteste si sono naturalmente indirizzate contro il governo e le sue politiche, quindi contro il presidente Hassan Rohani che, nel tentativo di combattere l’elevata inflazione, ha apportato pesanti tagli al bilancio pubblico. Questi tagli hanno danneggiato in particolare le classi a basso reddito e le stesse denunce di Rohani contro la corruzione e l’eccessivo sovvenzionamento a entità confessionali, spesso collegate all’avversaria ala radicale, hanno dato un aspetto senza dubbio politico alle proteste. Da qui la chiamata in causa della guida suprema Khamenei e le proteste contro le risorse sprecate nelle guerre in Siria, Iraq, e Yemen.
I tweet contro il regime da parte di Donald Trump hanno provocato le reazioni dei radicali, che hanno accusato il Grande Satana americano e i suoi alleati, in particolare Israele, di avere fomentato i disordini. Le manifestazioni, certamente spontanee anche se la storia passata porta a non escludere nulla, sono così diventate parte della guerra in corso in Medio oriente. Gli Stati Uniti hanno chiesto la convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la riunione si è tenuta venerdì 5 gennaio, con un sostanziale isolamento di Washington. Il Consiglio ha condannato le repressioni e invitato il regime iraniano a moderare le sue reazioni, ma al contempo ha riaffermato la validità dell’accordo sul nucleare. Su questa posizione si sono schierati anche alleati tradizionali di Washington, come Francia e Regno Unito, segnando così una chiara sconfitta per Trump, la cui avversione per l’accordo sul nucleare rimane difficile da capire.
Sembrerebbe infatti evidente l’opportunità di sostenere Rohani e i suoi alleati moderati e progressisti, unica possibilità di transizione pacifica dalla attuale teocrazia. L’atteggiamento di Trump finisce invece per favorire l’ala radicale del regime, in una specie di eterogenesi dei fini. Non vi sono dubbi sulla violenza del regime iraniano, ma le accuse di Trump suonano grottesche, visto l’appoggio incondizionato della Casa Bianca al regime saudita, anch’esso confessionale e repressivo. Forse la risposta si può trovare in quel “follow the money”, titolo di un già citato articolo di al Jazeera, che questa volta non si applica solo agli affari personali di Trump, ma all’intero sistema politico statunitense.
Nel maggio 2016, a seguito dei ricorsi delle famiglie delle vittime dell’attentato delle Torri Gemelle che ritenevano l’Arabia Saudita corresponsabile, il Senato approvò il cosiddetto JASTA, Justice Against Sponsors of Terrorism Act. Approvato anche dalla Camera dei Rappresentanti e rigettato dal Congresso il veto opposto da Obama, è diventato legge in ottobre. Questa legge consente ai tribunali federali di chiamare direttamente in giudizio governi ritenuti corresponsabili in atti terroristici.
Nel marzo 2017, i parenti delle vittime del settembre 2001 hanno presentato un’azione collettiva contro il Regno saudita, che ha reagito molto aspramente, negando ogni responsabilità. L’argomento determinante era stato però già portato in occasione dell’approvazione della legge: la minaccia del totale ritiro degli investimenti sauditi negli Stati Uniti, stimati in 750 miliardi di dollari. Un argomento persuasivo, unito alla consistente e costosa attività di lobby a tutti i livelli e alla promessa di ulteriori “affari” con gli Usa. Come il contratto di 350 miliardi di dollari per la vendita di armi nei prossimi dieci anni firmato lo scorso maggio durante la visita in Arabia di Trump, ma già in discussione con Obama. Business is business!