Il petrolio è stato spesso considerato una sorta di “cherchez la femme” della geopolitica, retroscena di molte guerre da quando è diventato un fattore fondamentale nell’economia moderna. Negli ultimi anni, si è affiancato in questo ruolo il gas naturale, sempre più importante per il suo minore livello di inquinamento rispetto a carbone e petrolio. E’ anche cambiata la platea dei produttori, soprattutto con l’entrata in gioco degli Stati Uniti, ora grandi produttori di petrolio e gas naturale grazie alla sempre più competitiva tecnologia del fracking (fratturazione idraulica). Gli Stati Uniti hanno così potuto ridurre notevolmente le importazioni di petrolio, mentre per il gas naturale sono già netti esportatori.
Lo scorso anno, la produzione di petrolio degli Stati Uniti è stata inferiore solo a quella di Russia e Arabia Saudita, con più di 10mila barili al giorno, picco raggiunto solo nel lontano 1970. Trump sta spingendo la produzione anche al di là dello shale oil, per esempio nel Golfo del Messico e in Alaska, e gli Usa potrebbero diventare i primi produttori in assoluto. Ciò permette agli Stati Uniti l’utilizzo degli idrocarburi come strumento attivo nelle strategie geopolitiche, in concorrenza con gli altri grandi produttori.
Non è improbabile che la minor dipendenza in campo energetico abbia contribuito ai toni aggressivi di Trump sul Nafta, in particolare verso il Canada, il maggior esportatore di petrolio negli Usa, ma la cui posizione viene evidentemente ritenuta ora molto meno forte.
La contrapposizione con la Russia trova le sue ragioni profonde nella ripresa di un ruolo globale di Mosca non più in posizione subordinata a Washington, ma riguarda anche le strategie energetiche. L’amministrazione americana sta tentando in tutti i modi di indebolire la dipendenza dell’Unione Europea dal gas naturale russo, opponendosi ai nuovi gasdotti e proponendo in alternativa la fornitura di gas liquefatto statunitense. Un esercizio poco conveniente per gli europei da un punto di vista economico, ma la partita si gioca soprattutto sul campo geopolitico ed è alla base del confronto con la Germania. Malgrado l’opposizione di Washington, Berlino sembra intenzionata a continuare con il gasdotto Nord Stream 2, che raddoppierà la fornitura di gas russo. Una posta importante per Mosca, le cui finanze cominciano a essere messe alla prova dalle sanzioni per la questione ucraina. Proprio l’Ucraina, peraltro, verrà danneggiata dal nuovo gasdotto, perché ridurrà i suoi ricavi per i gasdotti dalla Russia che transitano ora sul suo territorio. La Germania, invece, diventerà il distributore maggiore di gas russo in Europa, potenziando così il suo ruolo di leader europeo.
Anche i numerosi e persistenti conflitti che dilaniano il Medio Oriente, luogo iconico per il petrolio, hanno altre origini: il confronto per l’egemonia delle potenze regionali, Arabia Saudita, Turchia e Iran, intrecciato a conflitti a sfondo religioso tra sunniti e sciiti, e il permanere della minaccia jihadista. Da tempo gli Stati Uniti hanno stretto alleanza con i sauditi e le collegate monarchie del Golfo in funzione antiraniana, anche per l’atteggiamento antioccidentale della teocrazia di Teheran. Un’alleanza che ora comprende Israele, i cui rapporti con i sauditi sono migliorati decisamente di fronte al comune nemico iraniano, e che si sta avviando anch’essa a diventare un fornitore di idrocarburi all’Europa.
Barack Obama sembrava però aver colto il sostanziale fallimento della strategia americana in Siria, dopo gli esiti altrettanto fallimentari degli interventi in Afghanistan e Iraq. Il regime di Assad, ben lungi dal crollare, si stava consolidando grazie al decisivo appoggio di Russia e Iran, da qui la decisione di firmare il trattato sul nucleare con Teheran, grazie al fattivo intervento di Putin. Trump si è invece ritirato dall’accordo, creando così un altro argomento di scontro con l’Unione Europea, da un lato, e rafforzando le fazioni più radicali in Iran dall’altro. Le restrizioni all’esportazioni di petrolio, usate come arma contro Teheran, concorrono anche a mantenerne alti i prezzi, effetto secondario non trascurabile per gli altri produttori, statunitensi e alleati.
Accanto alle fonti di produzione, sta diventando sempre più importante il problema del trasporto degli idrocarburi verso i luoghi di consumo, in particolare riguardo a oleodotti e gasdotti, che devono spesso attraversare Stati terzi. Rilevante sotto questo profilo è la Turchia, snodo importante per le forniture di gas all’Europa dalla Russia e da altri Stati dell’Asia centrale. Dopo tre anni di discussioni non semplici, è stato firmato l’avvio del cosiddetto Turkish Stream, di cui un ramo servirà a rifornire di gas russo la Turchia, mentre l’altro potrà portare il gas nell’Europa del Sud. Un’alternativa meridionale al Nord Stream e un nuovo colpo all’Ucraina.
In questo scenario potrebbe rientrare anche la Siria: il consolidamento del regime di Assad sotto il “protettorato” russo e iraniano renderebbe possibile l’arrivo del gas iraniano direttamente sul Mediterraneo. L’economicità di questo progetto è tutta da verificare, così come è da verificare quanto Mosca sarebbe disposta a sacrificare quote di mercato a favore del “protetto” Iran. Tuttavia, l’ipotesi rimane e, comunque, molto sgradita a Usa e suoi alleati.
In realtà, per petrolio e gas si sta aprendo una nuova frontiera: il Far East. La Cina è il maggior importatore di petrolio e uno dei più grossi di gas, mentre l’India importa più dell’80% del suo fabbisogno di petrolio e considerevoli quantità di gas. Il mercato indiano è molto importante per l’Iran, ma è colpito dalle sanzioni americane, accettate peraltro malvolentieri dall’India. La Russia sta costruendo nuovi gasdotti verso la Cina, che potrebbe diventare un’alternativa concreta all’Europa, se questa decidesse di ridurre le forniture di gas russo. E’ solo un’impressione, ma non sembra che siano gli Stati Uniti a condurre il gioco: che sia Pechino?