NEW YORK — “I don’t like everything my wife does, but I still love her“. Ovvero, “non è che tutto quel che mia moglie fa mi piaccia, ma la amo lo stesso”. Ecco, in questa affermazione di tale Blake Hurst, agricoltore del Missouri, sta racchiuso il mistero che moltissimi europei non riescono a risolvere: come è possibile che dopo due anni l’America, anche quella che l’ha votato, sopporti ancora Trump? Al primo “mistero presidenziale”, cioè come è stato possibile eleggere quest’uomo alla guida del paese più potente del mondo, se ne aggiunge un secondo, cioè come fa costui ad avere un indice di gradimento simile — ed anche leggermente superiore — a quello di Reagan, Clinton e Obama allo stesso punto del percorso presidenziale. Perché non sono solo Blake Hurst e i suoi cugini di campagna ad amarlo.
Il “trumpismo”, come ormai si comincia a chiamare questo moto ondulatorio-sussultorio generatosi dall’attuale presidenza, comincia a pervadere tutti gli strati sociali e gli angoli geografici del paese, dai campi di granturco del Missouri a quelli di patate dell’Idaho, dai nuovi pensatori/imprenditori del “Economic Innovation Group” a chi tiene in mano le redini di Wall Street.
Un moto “generatosi”, non “generato” dalla presidenza. Provo a spiegarmi. Trump, c’è poco da discutere, ha una concezione della realtà (cioè di tutto, dalla politica all’economia, dalla religione all’etica) che è la sua e basta, cioè quella di un imprenditore che fa la voce grossa, tace o viene a compromessi a seconda di dove e come fiuti risultati, cioè profitto. “Far l’America di nuovo grande” per Trump implica farsi più grande dell’America stessa. Qualche sera fa l’ho visto a “60 Minutes”, un programma televisivo in cui per un’ora intera si affronta un tema, si intervista un personaggio. Seriamente, in maniera incalzante, senza rete. L’altra sera era lui sotto bombardamento da parte di Lesley Stahl, l’intervistatrice. Ebbene Trump non poteva apparire più a suo agio. Sicuro di sé, a tratti persino spavaldo nel brandire i “fatti” di questi due anni, i risultati di questa amministrazione come la vittoria nella battaglia che ha portato alla nomina del Giudice Kavanaugh, i tagli fiscali, la grande spinta verso una intensa deregulation, la revisione degli accordi commerciali con Canada e Messico, le pesanti tariffe sulle importazioni per rilanciare la produzione interna e costringere la Cina a negoziare…
Sappiamo bene che i dati dell’economia e del lavoro sono come un chewing gum che ognuno tira dove vuole, ma i numeri nudi e crudi sembrano dargli ragione, tanto che “Donald il Modesto” riassume il tutto con un bel “Nessuno ha mai fatto quel che ho fatto io”. E sulle questioni più spinose, quelle su cui l’attuale amministrazione viene costantemente infilzata dallo spiedo da media ed oppositori politici — climate change, Khashoggi, amore per Kim Jong-un, immigrazione — Trump va liscio, come potrebbe rispondere un qualunque operaio del Michigan, un contadino del Kansas, o un passante qualsiasi per le strade di Brooklyn. Nessuno ha mai fatto quel che ha fatto lui — certo, compresi i danni, compresa la palese miopia di tante prese di posizione. Però Trump “ha fatto e sta facendo”, e non c’è antidoto migliore contro il veleno della politica che la gente comune rifugge. Qui c’è confusione, c’è divisione, c’è un crescente urto ideologico, ma ci si sbatte. Nessuno si aspetta il reddito di cittadinanza.
E’ proprio in questo “sbattimento” che sta prendendo corpo quel moto che chiamiamo “trumpismo”. Come dire, un tentativo di pensare, concettualizzare e sistematizzare quelle dinamiche di decisione ed azione che Trump ha istintivamente attivato, trattando politica e società come si tratta il mercato immobiliare. Qualcosa “oltre” il fare di Donald, qualcosa che potrebbe durare più di Trump stesso.
Vedremo. Intanto il 6 novembre si va alle Midterm Elections. Vedremo se i Repubblicani riusciranno a mantenere il controllo delle Camere (Congress) o se Trump o trumpismo che sia, il paese comincerà a chiedere qualcosa di diverso.