NEW YORK — Per alzata di mano, contro il volere delle autorità messicane, sabato scorso più di 7mila migranti radunati nella piazza principale di Ciudad Hidalgo hanno deciso di proseguire il loro viaggio verso quella terra al tempo stesso promessa e proibita: gli Stati Uniti d’America. Una carovana immensa, che continua a crescere a ogni tappa, come avviene nei pellegrinaggi, dove a ogni pie’ sospinto qualcuno si aggiunge, qualcuno decide che è tempo di muoversi, di varcare la soglia di casa e incamminarsi verso una nuova meta. Così un gruppetto formatosi in Honduras e Guatemala è andato crescendo come una palla di neve che rotola giù per un pendio fino a diventare una valanga. Una valanga in cammino, ordinata e pacifica.



Ma la meta per questa valanga di pellegrini del terzo millennio è un “santuario” che non ha nessuna intenzione di accoglierli. Trump continua a mettere pressione sul governo messicano affinché trovi il modo di “registrarli” tutti, di dare un volto legittimo, documentabile, a ogni goccia che compone questa marea. Per il timore che tra la folla si nascondano persone pericolose, e anche come tentativo di prendere tempo di fronte a una situazione mai vista. Ma il governo messicano ha già più volte risposto a chiare lettere che non esiste alcun obbligo giuridico in base al quale si debba procedere a tale “registrazione” per coloro che in Messico sono semplicemente di passaggio lungo il cammino verso gli States, il Paese dove intendono chiedere asilo.



Apparentemente ben pochi sembrano interessati a fermarsi in Messico, nonostante i continui appelli delle autorità locali che suggeriscono di registrarsi per essere accolti nel Paese centroamericano. Il sogno è la terra a stelle e strisce e il timore è quello di essere prima sbattuti in uno shelter messicano e poi ricacciati al Paese d’origine. Così non ci si registra e si riprende tutti il cammino. Allora a Trump non resta che twittare che se il Messico non si darà da fare “gli Usa li rispediranno indietro”, gli Stati Uniti sono pronti a ricacciare questo fiume di esseri umani. Eppure la processione continua, calma e tenace, spesso accompagnata dall’incoraggiamento della popolazione locale, che dona generosamente ai pellegrini calore umano, ma anche frutta, acqua e tortillas.



Così tanti migranti in un’unica ondata non si erano mai visti. E’ per questo che nonostante tutto si preferirebbe ignorare la quotidianità di queste vie crucis di coloro che in qualche modo riescono ad attraversare il Suchiate River e con esso il confine tra Guatemala e Messico nuotando o su zattere insicure: stavolta non c’è scampo, non si può non vedere.

Gruppi di un qualche centinaio sono diventati da tempo una normalità, perché il viaggio è a dir poco rischiosissimo, e la protezione di compagni d’avventura è indispensabile. Spesso queste carovane sono organizzate, messe insieme da gruppi di solidarietà che operano per aiutare coloro che decidono di intraprendere il grande cammino.

Ma 7mila sono davvero tanti, tanti da costringerci a pensare, a chiederci cosa aspettarsi da coloro che guidano il nostro Paese, cosa sia giusto fare. Dobbiamo pensare anzitutto a noi stessi? E cosa vuol dire pensare anzitutto a noi stessi? Dobbiamo assicurarci di non dare albergo a persone che in realtà ci odiano e vogliono distruggere i nostri valori e il nostro modo di vivere? Come possiamo proteggerci da questo pericolo? Dobbiamo spalancare la porta e condividere quel che abbiamo, noi che abbiamo ricevuto molto di più? Cosa possiamo dare? Se siamo sinceri con noi stessi dobbiamo ammettere che non sono domande a cui rispondiamo volentieri, anzi, sono domande che non vorremmo neanche sentirci porre.

Però, intanto, ci sono 7mila esseri umani che stanno per bussare alla nostra porta. God Bless America.