Come prevedibile, Theresa May è stata designata a succedere a David Cameron alla guida del Partito Conservatore e del governo, una scelta coerente con la situazione creatasi dopo l’esito del referendum. In un precedente articolo avevo già cercato di descrivere le divisioni tra le varie componenti del Regno Unito, le quattro nazioni che lo compongono, e all’interno dei due maggiori partiti. Queste divisioni facevano ipotizzare un orientamento degli elettori verso l’alternativa meno rischiosa, cioè la permanenza nell’Unione Europea,viste le condizioni decisamente favorevoli ottenute da Cameron nelle trattative precedenti il referendum. La previsione si è rivelata sbagliata, ma le divisioni interne sono state pesantemente confermate.
Theresa May è stata Segretario per gli Affari Interni nei due precedenti governi guidati da Cameron, assumendo posizioni piuttosto rigide nei confronti del problema immigrazione. Nel dibattito sul referendum si è espressa in favore della permanenza nell’UE, ma la sua partecipazione alla campagna per il Remain è stata piuttosto “soft” e non ha risparmiato critiche all’Europa. Il suo atteggiamento fa pensare a una strategia mirata ad assumere la leadership dei Tories, se Cameron avesse dato quelle dimissioni almeno dalla guida del suo partito, richieste da molti dopo il coinvolgimento del padre nello scandalo Panama Papers. Dopo la rinuncia di Boris Johnson e il voto negativo dei parlamentari Conservatori sull’altro leader del Leave Michael Gove, già Segretario alla Giustizia, May ha vinto nettamente sulla concorrente rimasta in gara, Andrea Lindsom, anche lei ministro di Cameron con delega all’ambiente e all’agricoltura. Come si vede, una lotta tra membri del governo che dice molto sulle divisioni del Partito.
I primi passi del nuovo Primo ministro sembrano improntati a una certa cautela, comprensibile nella situazione descritta. Theresa May ha dichiarato di voler rispettare il responso del referendum, ma ha aggiunto che l’obiettivo del suo governo sarà quello di “costruire una Britannia migliore”, il che lascia aperte più opzioni,almeno in teoria. Con probabile irritazione di Juncker e dei vertici di Bruxelles, ha affermato di voler affrontare ponderatamente il problema Brexit e si comincia già a pensare alla fine dell’anno come prima data possibile per la formalizzazione del ricorso all’art. 50 del Trattato.
Il Primo ministro ha sottolineato fortemente il valore dell’unità nazionale, esprimendo la sua volontà di rappresentare tutti i cittadini britannici, non solo con riferimento alle appartenenze politiche o nazionali, ma esplicitando il suo futuro impegno a favore delle classi meno agiate che più soffrono nell’attuale crisi. L’impegno preso di lavorare per tutti e non solo per “pochi privilegiati” ha senza dubbio lo scopo di togliere spazio a un Partito Laburista già in crisi per conto suo, ma è il riconoscimento che buona parte del voto per uscire dalla UE non è dovuto a estremismi nazionalisti o addirittura razzisti. Per molti cittadini britannici, l’Unione Europea è un soggetto lontanoche, al massimo,favorisce la City e i grandi gruppi, mentre anche il governo nazionale viene sentito lontano dai propri problemi, una distanza che la May ha riconosciuto, affrettandosi ad impegnarsi alla sua riduzione.
Anche la composizione del nuovo governo è significativa per l’approccio del Primo ministro alla ricerca della costruzione di un UK migliore. Una delle principali assenze nel nuovo governo è quella di George Osborne, già Cancelliere dello Scacchiere e deciso sostenitore della permanenza in UE, sostituito da Philip Hammond, già Segretario agli Affari Esteri e anch’egli sostenitore del Remain. Le prime dichiarazioni di Hammond sono in direzione di un ammorbidimento dei drastici provvedimenti economici previsti da Osborne nel caso della Brexit. Anche Michael Gove, uno dei leader del partito del Leave e già responsabile della giustizia, non è stato riconfermato, cosa prevedibile data la sua contrapposizione alla May nella corsa al premierato.
La vera sorpresa del nuovo governo è la nomina di Boris Johnson in sostituzione di Hammond come ministro degli Esteri, riportando così in prima linea l’ex sindaco di Londra che era stato messo nelle retrovie proprio da Gove. La nomina ha suscitato perplessità e c’è chi ha ricordato le sue pesanti frasi su Obama in occasione della visita a Londra di quest’ultimo e del suo, altrettanto pesante e invadente, appoggio alla permanenza nell’UE. IlFinancial Times sottolinea però che il suo ruolo sarà limitato dalla costituzione di due nuovi dicasteri, uno appositamente per gestire le trattative con l’Unione Europea sulla Brexit e un altro per il commercio internazionale e i relativi trattati, entrambi affidati a esponenti della fazione Leave. Il quotidiano inglese interpreta l’affidamento di questi incarichi a tre “Brexiters” come un tentativo della May di far loro gestire l’uscita dall’UE, attribuendone il successo al governo di cui fan parte , ma sollevandone la responsabilità in caso di insuccesso.
Qualche commentatore ha posto in rilievo una certa analogia tra il modo di operare di Theresa May e quello di Angela Merkel; tra l’altro, la prima è figlia di un prete anglicano, la seconda di un pastore luterano. C’è da sperare che queste affinità si dimostrino utili nell’inevitabile confronto futuro tra le due.