Quello che i giornali francesi chiamano “L’affaire Kavanaugh” viene da lontano, e forse un poco di storia può non essere inutile.
23 ottobre 1987: il senato Usa respinge la nomina, avanzata dal presidente Ronald Reagan, di un importante giurista e autore di numerosi libri, Robert Bork. Le ragioni sono squisitamente politico-legali (sì, “squisitamente” è un avverbio un po’ antiquato, ma vedremo perché qui ci sta). Insomma, Robert Bork è considerato troppo conservatore. Normale partigianeria politica, dunque. Ma già allora si avvertiva un tono nuovo, nel suo livore.
A quell’epoca avevo la fortuna di frequentare un importante centro di studi (il Centro Whitney per gli Studi Umanistici) dell’Università di Yale: ogni mese a turno dovevamo presentare di fronte a tutti i membri una relazione pertinente alle nostre ricerche, cioè un compassato esercizio universitario. Ma ricordo ancora il mio stupore quando uno dei membri — giovane e brillante giurista in carriera — presentò come relazione un suo rapporto “dal campo di battaglia” come suol dirsi, non tentando nemmeno di considerare i vari punti di vista sull’argomento (come i miei colleghi si vantavano di saper fare così bene), ma semplicemente riferendo sui progressi del suo lavoro politico a Washington, teso a distruggere a tutti i costi la candidatura di Bork. Io non avevo un’opinione precisa in proposito, ma quello spettacolo poco accademico fu per me uno shock, e una lezione; i miei confratelli americani qui facevano squadra, senza nemmeno fingere il fair play: volevano soltanto godersi nei suoi particolari la distruzione di una candidatura scomoda. E così, avevo sperimentato di prima mano il connubio di attivismo politico, scienze sociali e scienze umane.
Ottobre 1991: dibattito televisivo, acceso e seguitissimo, fra Clarence Thomas, intellettuale nero (allora si diceva ancora così, non afro-americano) e conservatore, candidato dal presidente George Bush al posto allora libero di giudice della Corte suprema, e Anita Hill sua ex-assistente, che lo accusava di comportamenti poco corretti — ma già si diceva “molestie”, con un pericoloso ampliamento del concetto: le asserzioni in effetti vertevano soltanto su parole e immagini, non su atti concreti. Queste accuse dunque, tutt’altro che “squisitamente”, non erano politico-legali, ma di tipo scandalistico a sfondo sessuale; donde il grande successo mediatico del dibattito. In cui veniva già sperimentata la tattica che vediamo funzionare ancor oggi nel caso Kavanaugh: i particolari piccanti esposti da chi accusa acquistano un’aura di solennità, mentre se l’accusato tenta di ribattere su tali dettagli pruriginosi, viene stigmatizzato come volgare. Così il fango schizza fra entrambe le parti in causa e di lì trabocca gioiosamente tutt’intorno — quel fango che è un ingrediente essenziale nella cucina dei media.
Sotto lo sbandieramento dei grandi valori si cela il prurito delle rivelazioni erotiche, con gran godimento del pubblico che si sente libero una volta tanto di portare a galla tante pulsioni inconsce. Per rendersi conto di questa ipocrisia nel cosiddetto dibattito delle idee, basterebbe rileggere quell’opera eccellente, non invecchiata dal 1923 e ben più leggibile dei tomi del suo maestro Freud, che è Il libro dell’Es del medico e psichiatra tedesco Georg Groddeck, in cui anche la traduzione italiana ha conservato il pronome tedesco es, equivalente al latino id — come dire , “esso” (o forse è meglio dirlo in modo vernacolare: “isso”?). Insomma: il magma oscuro che gorgoglia dentro ognuno di noi e spiega tanti aspetti della nostra vita che di solito ci guardiamo bene dal dire a noi stessi, nonché agli altri.
Il dibattito Hill-Thomas in quegli anni Novanta mi fornì la prima esperienza di qualcosa di inaudito fino ad allora, nel paesetto rurale — un villaggio, in realtà — a cui facevo ritorno ogni sera (a circa 25 minuti d’auto da Yale, sembrava già un altro mondo): un luogo idillico dove noi vicini al massimo potevamo avere una garbatissima e sfumata divergenza di opinioni sulla lunghezza alla quale potare le siepi per evitare che i rami producessero sgraffiature sulle fiancate delle nostre auto quando passavano lungo il vialetto. E invece in un certo pomeriggio, mentre assistevamo in gruppetto a quella lite televisiva, i toni finirono col diventare più stridenti (con una ahimè prevedibile divergenza di opinioni fra i due sessi — allora non si diceva ancora “generi”), e ci separammo abbastanza freddamente. Fu la mia prima, come dicevo, esperienza di una discussione politica fra vicini di casa, nel cuore dell’America pastorale. Piccolo, piccolissimo episodio, certo: ma è con esperienze come questa che il neo-cittadino prende veramente la temperatura di un paese, e identifica i mutamenti da una stagione politica all’altra.
E’ difficile prevedere che cosa succederà nel caso Kavanaugh. Ma forse è utile ricordare che nei due precedenti già menzionati si verificò il fenomeno che quasi sempre ha luogo (anche se molti continuano a esserne sorpresi) in simili frangenti: Bork (il candidato perdente) si amareggiò e si radicalizzò nel suo conservatorismo; mentre Thomas, il candidato vincente, è ancora al lavoro coi suoi colleghi nella Corte suprema e ha subito imparato l’arte dell’empiria e del caso-per-caso: seguendo liberamente di volta in volta le sue analisi squisitamente giuridiche, a volte vota in senso progressista, e a volte in direzione conservatrice. A parte ciò resta valida la lezione del saggio Groddeck, che si potrebbe parafrasare in questo modo: prima di occuparci dei piani alti, è bene fare una bella ispezione in cantina.