Il referendum in Macedonia di domenica scorsa ha aperto un nuovo fronte tra i due nazionalismi che dividono l’Occidente: quello realmente “sovranista”, che governa a Washington, Berlino, Parigi, Londra, Bruxelles, e quello definito “populista” dei Paesi più marginali, come il Gruppo di Visegrad, l’Austria o la stessa Italia. Il nuovo confronto avviene in un’area piuttosto critica, quei Balcani che ancora soffrono le conseguenze dei sanguinosi conflitti del passato, anche recente.
La Macedonia, uno dei sei Stati sorti dalla dissoluzione nel 1991 della Repubblica Iugoslava, ha poco più di due milioni di abitanti, per il 64% macedoni, per il 25% albanesi, con minoranze turche, romene e serbe. A differenza di altri Stati balcanici, la Macedonia non è stata coinvolta in sanguinose guerre interne, ma nel 2001 vi sono stati scontri con fazioni separatiste albanesi, terminati con un accordo che riconosceva, tra l’altro, l’albanese come lingua ufficiale accanto al macedone nelle zone abitate dalla minoranza albanese. Il “problema albanese” non è ancora del tutto risolto — nel 2015 vi sono stati ancora scontri, con infiltrazioni kosovare — e la minaccia dell’inclusione della parte albanese della Macedonia in una “Grande Albania”, per quanto apparentemente lontana, continua a destare preoccupazioni nella maggioranza macedone.
Il pericolo di secessione della minoranza albanese non è l’unico ostacolo posto alla Macedonia dall’esterno: la Bulgaria rifiuta di riconoscere una nazione macedone, considerando i macedoni etnicamente e linguisticamente parte della più ampia nazione bulgara. Una questione questa che colpisce l’orgoglio nazionale macedone, ma che non ha grandi risvolti concreti, dato che la Bulgaria riconosce la Repubblica di Macedonia.
Proprio il nome, invece, rappresenta uno dei più grossi problemi del giovane Stato, per l’opposizione della Grecia in tutti questi 27 anni: per Atene, il nome Macedonia può essere attribuito solo alla parte rimasta in Grecia, l’unica che può essere definita così storicamente. La questione può sembrare bizzarra, ma nasconde reali preoccupazioni greche su possibili, per quanto poco probabili, rivendicazioni territoriali da parte di Scopje. E’ così che, dalla sua indipendenza, la Macedonia viene designata, per esempio all’Onu, con l’acronimo Fyrom: Former Yugoslav Republic of Macedonia. In assenza di una soluzione accettabile sul nome, la Grecia ha continuato ad impedire l’entrata della Macedonia nella Ue e nella Nato.
Con questo retroscena si è svolto il referendum di domenica scorsa, in cui i cittadini erano chiamati ad approvare l’accordo firmato tra i governi greco e macedone relativo al nome: Repubblica della Macedonia del Nord. Francamente, sembrano eccessivi quasi tre decenni per arrivare a un simile accordo, raggiunto da due governi di sinistra, quello del greco Alexis Tsipras e quello del macedone Zoran Zaev. I partiti nazionalisti si sono infatti opposti all’accordo in entrambi i Paesi, con estese manifestazioni di piazza in Grecia.
Il referendum, con valore solo consultivo, non ha raggiunto il quorum del 50% più uno, fermandosi a circa il 37%, peraltro con il 91% a favore dell’accordo. La maggioranza dei macedoni ha quindi seguito l’invito dell’opposizione di non andare a votare. Una sconfitta, a quanto pare non prevista nelle capitali che contano, per il governo di Zoran Zaev, che, sottolineando solo il voto favorevole della minoranza che ha votato, ha deciso di portare comunque l’accordo in Parlamento. Dove è però necessaria la maggioranza di due terzi, difficilmente raggiungibile, e Zaev ha già annunciato nuove elezioni nel caso di un voto negativo. La partita si presenta decisamente non semplice e rischia di mettere il Paese in una difficile situazione.
E’ importante vedere anche la formulazione della domanda sottoposta ai cittadini; “Sei favorevole all’adesione a Unione Europea e Nato, e all’accordo tra la Repubblica di Macedonia e la Grecia?” Un’unica risposta su tre quesiti diversi. Inoltre, l’entrata nelle due istituzioni era esplicitamente legata alla questione del nome, come da sempre richiesto dalla Grecia. Ciò ha permesso alle opposizioni di affermare che si trattava di una resa alle pretese greche, umiliante per la Macedonia.
L’esito del referendum è una sconfitta anche per Bruxelles, i cui esponenti hanno commentato con la ormai abituale noncuranza per le opinioni espresse dagli elettori. In un comunicato, firmato da Federica Mogherini e dal Commissario Johannes Hahn, si legge che “La stragrande maggioranza di coloro che hanno esercitato il proprio diritto di voto ha votato sì” e che ora tutti gli attori politici e istituzionali devono agire secondo le loro responsabilità costituzionali al di là delle linee di partito. Poco importa se il referendum non ha raggiunto il quorum, basta il parere favorevole di un terzo degli aventi diritto al voto. Sulla stessa linea sono le dichiarazioni di Jens Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, e della portavoce del Dipartimento di Stato americano.
Anche per il governo greco non è un buon risultato e anche qui si comincia a parlare di possibili elezioni anticipate. Un rischio non solo per il Paese, ma anche per la stessa Ue, che non ha molto da guadagnare da un possibile cambiamento di governo. In fondo, Tsipras si è dimostrato collaborativo e si può pensare lo sia stato anche in questa occasione, magari obtorto collo.
Per finire, non potevano mancare accuse alla Russia per asserite interferenze nelle votazioni, ovviamente smentite dal Cremlino. Non vi è dubbio che lo sviluppo della vicenda sia ben accetto a Mosca, che vede Ue e Nato allontanarsi dalla Macedonia, ma l’impressione è che questa volta i russi non abbiano dovuto darsi molto da fare. Al risultato ci hanno pensato gli altri.