Nel vortice formato dai venti che spazzano i cieli del Medio oriente, ed in particolare quelli della Palestina, di Gaza e di Israele qualcosa di solido comunque rimane. Per la prima volta dopo anni, si è avuta nei mesi scorsi la conferma che una trattativa tra il governo israeliano ed Hamas è possibile e forse già in corso. Coloro che in Israele, e fuori di Israele, affermavano che mai questo sarebbe accaduto, ora tacciono. Chi, sempre in Israele, ha agito per convincere Stati Uniti e paesi europei a porre Hamas sulla lista nera dei movimenti terroristici internazionali, impedendo ogni rapporto politico e diplomatico con il movimento islamista, ora non ricorda e non commenta. Chi soprattutto, nel gennaio 2006, dopo le elezioni politiche palestinesi vinte da Hamas, ha impedito la nascita di un governo di unità palestinese continua a non riflettere su una storica opportunità politica, dissipata insieme alla possibilità di raggiungere una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi.



Fa impressione, in questo ottobre 2018, ascoltare nuovamente la parola “opportunità”, sulla bocca di un leader di Hamas. “C’è una reale opportunità di cambiamento — ha affermato nei giorni scorsi Yahya Sinwar, capo di Hamas a Gaza —. La guerra non è nostro interesse. Nella situazione attuale, però, un’esplosione è inevitabile”. Oggi, come nel gennaio 2006, la strada verso un cambiamento è, dunque, stretta. I tempi delle decisioni assai brevi.



Questa volta le voci che si odono sono, però, in parte diverse. Cominciamo da quella di Netanyahu, il primo ministro di Israele, cioè di quello Stato che dal 2007 ha posto un milione e 800mila abitanti di Gaza sotto un assedio militare ed economico asfissiante. Ebbene, ora Netanyahu si rivolge ad Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ed afferma: “Se Hamas attacca Israele è perché lui soffoca Gaza”. Vero o falso?

Netanyahu si spoglia delle sue decennali responsabilità verso Gaza né cita quelle, più recenti, di Donald Trump, il presidente americano che ha tagliato oltre 300 milioni di dollari di aiuti finanziari annui all’Unrwa, l’organizzazione dell’Onu che sostiene i profughi palestinesi soprattutto a Gaza. Netanyahu, invece, accusa oggi Abu Mazen di affamare Gaza. Vero o falso? E’ vero, ovviamente in parte. Il grande apparato dei pubblici dipendenti di Gaza, che rappresenta con i suoi salari uno dei due polmoni finanziari della sopravvivenza a Gaza (l’altro è rappresentato dall’Unrwa), si sta atrofizzando per mano del governo di Abu Mazen. Gli aiuti internazionali concessi ai palestinesi si fermano, infatti, a Ramallah ed arrivano sempre di meno a Gaza. Decine di migliaia di dipendenti pubblici sono ora senza salario o lo ricevono a singhiozzo. E’ la vendetta di Abu Mazen, dicono a Gaza, perché Hamas non si è a lui piegato, né ha sciolto il suo esercito.



Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese non nasconde il suo obiettivo. Lo ha proclamato pubblicamente, anche pochi giorni fa, da New York all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Abu Mazen, parlando di Hamas, ha detto che deve accettare il principio che esiste “una sola autorità palestinese legittima, una sola legge, un solo esercito”.

Un principio di assoluta razionalità, ma proclamato in un contesto storico ormai compromesso, perché si è fondato su elezioni politiche, quelle del gennaio 2006, vinte regolarmente da Hamas ma soffocate dai palestinesi di Fatah, dagli israeliani e dalla comunità internazionale.

Per questo, adesso, le parole del leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, non si possono, anch’esse, soffocare: “…se Gaza pian piano torna ad essere normale, se iniziamo a ottenere investimenti e sviluppo — e non solo aiuti umanitari, perché non siamo mendicanti — vogliamo lavorare, studiare, viaggiare, come tutti gli altri. … Se ciò accade, il cessate il fuoco può essere esteso ed esteso ancora e ancora…”. Una proposta, in vero, più volte avanzata. 

Certo Hamas fa della frustrazione e della voglia di normalità della gente di Gaza lo strumento per non cedere, ora, il potere. Hamas vuole trattare con Israele, chiede la fine dell’assedio, torna ad offrire una tregua decennale, di fatto depone le armi, altrimenti fa intravedere l’esplosione della rabbia della gente di Gaza. Israele sembra voler vedere, questa volta, le carte che, per Gaza, Hamas pone sul tavolo. Abu Mazen, invece, teme di dover pagare un prezzo alto: il permanere della divisione politica dei palestinesi. C’è da sperare che il destino attuale degli abitanti di Gaza non sia fuori dalle ragioni delle sue decisioni.