L’Arabia Saudita è sempre più spesso al centro dell’attenzione, non solo e non tanto per le evoluzioni del prezzo del petrolio, quanto per una serie di “incidenti” che stanno danneggiando gravemente la sua immagine internazionale. E quella del suo “uomo forte”, il principe ereditario Mohammed bin Salman, detto MBS, in particolare per due tragici eventi: la recente brutale uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul e la catastrofe umanitaria causata dalla guerra nello Yemen, ormai in atto da quattro anni.
Di fronte alla brutale uccisione di Khashoggi, il governo saudita ha tenuto un atteggiamento, a dir poco, imbarazzante, prima negando che fosse avvenuta e poi dando più versioni contrastanti, lasciando totalmente al governo turco la regia della vicenda. Comportamento incomprensibile di fronte a un assassinio avvenuto in un consolato, cioè sotto il controllo ufficiale del governo. I commentatori si sono concentrati soprattutto sulle responsabilità dirette di MBS, da alcuni ritenuto il mandante, da altri la vittima di una trappola per danneggiarne la posizione. Al di là delle apparenze, MBS ha dimostrato nei fatti di seguire la linea totalitaria propria della dinastia saudita, ma sembra improbabile che si sia esposto direttamente in un’operazione così inutile e controproducente. Khashoggi non rappresentava un rischio reale per il regime e ciò va in favore di una manovra di oppositori del principe ereditario, per danneggiarne l’immagine all’esterno e per dimostrare che il suo controllo sul Paese è tutt’altro che totale.
Si va facendo strada però un’altra ipotesi, quella di un eccesso di zelo da parte di sostenitori del regime, all’insaputa di MBS. E’ quanto lo stesso principe avrebbe suggerito in una risposta a Johnnie Moore, un evangelico americano delegato della U.S. Commission on International Religious Freedom, secondo quanto riportato da The Atlantic. Dopo aver negato ogni coinvolgimento, MBS ha aggiunto: “Posso aver spinto qualcuno nel mio popolo ad amare troppo il nostro regno e, perciò, a prendersi l’autorità di commettere qualcosa di atroce, che pensavano assurdamente sarebbe stato gradito”. Trucida versione araba di Assassinio nella cattedrale?
Il delitto ha suscitato una generale indignazione, con pressanti richieste a Riyadh perché faccia chiarezza sull’accaduto, con risultati finora deludenti. Il ruolo principale è tuttora in mano alla Turchia ed Erdogan ne sta traendo un notevole vantaggio, se non altro perché in tal modo viene sviata l’attenzione dai suoi problemi interni. Al di là delle proteste di facciata, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Israele sono rimasti schierati con i sauditi, e sia Trump che Netanyahu hanno affermato che la stabilità dell’Arabia Saudita, e gli affari con la stessa, sono troppo importanti per essere messi in discussione. Solo il governo di Angela Merkel ha sospeso le vendite di armi a Riyadh fino a quando l’affaire Khashoggi non sarà chiarito.
La morte di Khashoggi ha reso ancor più acceso il dibattito sulla guerra nello Yemen, nei cui confronti anche Khashoggi si era espresso in modo critico. La dimensione di catastrofe umanitaria attribuita dall’Onu a questa guerra sta sollevando sempre più condanne sul piano internazionale, peraltro senza esito. Qualcuno spera che la prossima entrata della Germania nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu possa portare ad azioni più decise, visto l’atteggiamento del governo di Angela Merkel. Anche nel Congresso Usa stanno aumentando le critiche al sostegno alla coalizione guidata da sauditi ed Emirati, finora appoggiata senza grandi remore dall’Amministrazione. Recentemente, il Segretario di Stato Pompeo e il Sottosegretario alla Difesa Mattis si sono dichiarati a favore del piano Onu per un cessate il fuoco entro questo mese. La stessa posizione è stata sostenuta dal ministro degli Esteri inglese, Jeremy Hunt e, quindi, si sta aprendo qualche speranza di soluzione del conflitto.
Il problema rimane l’atteggiamento dei sauditi, che potrebbero ritenere inaccettabile un accordo con i ribelli Houthi che non contempli la loro completa, ma difficile, sottomissione al governo yemenita sostenuto da Riyadh. La partita rimane molto rischiosa per l’Arabia Saudita: la vicenda Khashoggi ha dato punti di vantaggio alla Turchia di Erdogan, una soluzione non “vincente” nello Yemen favorirebbe l’Iran. Tutto sembra perciò dipendere da Washington e dalle altre capitali occidentali, che devono smettere di considerare la catastrofe yemenita come un “semplice” danno collaterale del più ampio war game mediorientale.