Theresa May – oxfordiana, moglie di un banchiere della City, premier conservatore del Regno Unito di una Maestà britannica – è quanto di più diverso si possa immaginare rispetto a Luigi Di Maio e Matteo Salvini, co-premier “populisti” in carica nella Repubblica italiana. Eppure mai come in queste ore i leader di Londra e Roma possono essere accostati e osservati nelle loro difficili relazioni con l’Europa tecnocratica a guida franco-tedesca.



La May è entrata a Downing Street nel 2016 con un mandato preciso, stabilito democraticamente dall’elettorato britannico: portare la Gran Bretagna fuori dall’Ue, giudicata allo stato attuale più un ostacolo che un’opportunità. Di Maio e Salvini hanno formato un Governo dopo un esito elettorale 2018 meno tranchant del referendum Brexit, ma di eguale significato politico, dopo sette anni di austerity imposta dall’Ue e di successiva recessione.



È vero – a differenza dei leader di M5S e Lega – la May appartiene allo stesso partito di David Cameron, bocciato dal referendum Leave/Remain, e ha indetto nel 2017 elezioni anticipate di insuccesso per i Tories. La premier britannica ha comunque aperto trattative con l’Ue per convogliare entro un ordinato processo politico-diplomatico la rottura, il segnale democratico forte inviato dal più antico regime liberale del pianeta.

La risposta di Bruxelles – portavoce meccanica di Berlino – è stata sempre rigida: Brexit non era né poteva mai essere un problema “europeo”, ma solo un fatto interno “britannico”. Se Londra voleva uscire dai “parametri” dei Trattati, i nodi, i rischi, le penalità erano tutti a carico del Paese che voleva uscire. Anche a Londra hanno perso lucidità e sbagliato qualche mossa, ma non hanno mai ricevuto una sola sponda per provare a superare lo strappo del referendum. Fra Francoforte e Parigi è invece subito cominciata la spartizione delle “spoglie”, anzitutto i trasferimenti delle sedi delle gradi banche d’affari e di decine di migliaia di ricchi “professional” e loro clienti.



Ora la May e un tecnocrate francese di fede gollista – senza più patria politica nell’Europa che va a rinnovare il suo parlamento – hanno siglato 600 pagine di “compromesso”, zeppe di “parametri” studiati ad hoc per sganciare la Gran Bretagna. Non sono trascorse che ventiquattr’ore e il Governo britannico è sull’orlo delle dimissioni e alla bozza di accordo non vengono lasciate che pochissime chance di promozione ai Comuni. Chissà se e come il 25 novembre, Angela Merkel ed Emmanuel Macron pensano di celebrare un consiglio straordinario per sancire un “giusto divorzio”: pochi giorni dopo aver celebrato i cent’anni della fine della Grande Guerra e di un altro “compromesso” (la pace di Versailles che incubò il secondo conflitto mondiale).

Ma tant’è: e nel frattempo lo stesso trattamento viene riservato all’Italia sui propri conti pubblici. Parametri e scadenze non si discutono mai e semmai vengono ritorti da chi è più forte verso chi lo è di meno; e se elettorati aprono bocca e alano la voce tanto peggio per loro e per chiunque li governi. Gli unici “compromessi” buoni sono quelli stampati a palazzo Charlemagne. Avanti (o fuori) il prossimo. Fino a quando Bruxelles diventerà la capitale di un’Europa offshore, utile al massimo per offrire un buon retiro a ex leader europei.