NEWCASTLE — I fatti sono noti. La scorsa settimana il primo ministro britannico, Theresa May, ha ottenuto l’approvazione dal proprio esecutivo del piano che deve definire l’accordo di massima sul divorzio del Regno Unito dall’Unione Europea fissato per il prossimo marzo 2019. La May ha però avuto subito un brusco risveglio, a causa delle dimissioni di quattro suoi ministri, tra cui – di nuovo – quella del ministro responsabile della Brexit, Dominic Raab (esattamente come avvenne con David Davies, che si dimise dopo l’approvazione del famoso “Chequers Plan” qualche mese fa).



Quello che dunque sembrava essere un grosso passo avanti nel raggiungimento di un accordo di divorzio tra Uk e Ue dopo mesi di estenuanti trattative e incomprensioni si è rapidamente trasformato in un enorme problema, dal quale al momento è difficile individuare chiaramente possibili soluzioni.

Non è questa la sede per dettagliare nello specifico i punti salienti del piano negoziato dalla May, che in ogni caso riguarda principalmente la procedura di divorzio (e non, nel dettaglio, il futuro della relazione tra Uk e Ue).



Tre domande cruciali

Qui si vuole provare a evidenziare alcuni elementi che possono aiutare a rispondere a tre cruciali domande.

1) Come mai quello che avrebbe potuto rappresentare un momento di straordinaria unità del popolo britannico e della sua indipendenza dalla “sovrastruttura” europea si sta di fatto tramutando nel momento di massima divisione da cinquant’anni a questa parte, gettando un alone d’incertezza sul futuro, inimmaginabile solo qualche mese fa?

2) Come mai, a distanza di due anni dal voto, nessuno dei sostenitori della Brexit è stato ancora in grado di spiegare chiaramente quale sarebbe il beneficio delle conseguenze di una hard Brexit (controllo dell’immigrazione, libertà di negoziare trattati di scambio con altri Paesi, recupero della sovranità del Parlamento eccetera)?



3) Come mai in questi mesi la May non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo in un verso o nell’altro (o dicendo chiaramente che la Brexit non è positiva per il Paese oppure, all’opposto, sostenendo apertamente una hard Brexit) e ha invece negoziato quella che è di fatto una mezza Brexit, che metterebbe il Regno Unito in una posizione peggiore di quella precedente sotto molti punti di vista?

Domande che si possono, poi, sintetizzare in un singolo grande interrogativo: perché si è giunti a discutere un accordo che non piace a nessuno, mettendo per la prima volta (quasi) tutti d’accordo (tanto che esponenti dei remainers come Blair e brexiteers come Johnson si sono trovati d’accordo su questo punto)?

Le ambiguità della Brexit

Secondo noi, ci sono tre ambiguità di fondo che aiutano a comprendere meglio la situazione:

1) un’ambiguità sulla responsabilità di questa decisione. Nonostante la divergenza di opinioni, c’è un mantra condiviso per il quale “we have to deliver Brexit accordingly with the will of the British people” (dobbiamo fare la Brexit perché questa è la volontà espressa dal popolo britannico). Tralasciando le discussioni sul merito del voto (il 51,9% non è esattamente una maggioranza rappresentativa e le promesse della campagna elettorale dei pro-Brexit si sono già rivelate irrealizzabili), il referendum rimane uno strumento a valenza consultiva: in una monarchia parlamentare (come quella britannica) spetta al Governo e al Parlamento prendere le decisioni e darne le motivazioni. La retorica di questi due anni però (che procede naturalmente dall’anti-europeismo dello scorso decennio) ha reso più complicata questa dinamica, perché il governo si è di fatto trovato a dover sostenere qualcosa rispetto al quale non c’era una visione e un accordo comune al suo interno. Dopo aver passato mesi a sostenere l’inevitabilità della Brexit, diventa politicamente difficile se non impossibile “rimangiarsi” la parola data e “tradire” improvvisamente la volontà del popolo, anche di fronte all’evidenza dell’enorme complessità dell’operazione, dei danni e dei rischi.

2) Un’ambiguità (o incompatibilità?) delle ragioni della scelta. Al netto delle motivazioni “di pancia” (voto di protesta, contro il governo eccetera) i due elementi chiave da considerare sono le implicazioni economiche e politiche di tale decisione. Semplificando (ma nemmeno tanto) la situazione, la motivazione predominante tra i brexiteers è quella di carattere politico (ottenere l’indipendenza, liberarsi dai vincoli di Bruxelles, riottenere il controllo su materie come immigrazione, scambi commerciali eccetera) piuttosto che economica; anzi, come sostenuto da alcuni dei suoi esponenti, anche a discapito di quella economica se fosse necessario (“meglio più poveri ma fuori dalla Ue”, ha dichiarato un brexiteer convinto come Sir Michael Caine). Tra i remainers, invece, prevale esattamente la visione opposta – meglio rinunciare a parte della sovranità nazionale aderendo alla Ue per beneficiare del benessere economico, sociale, di sicurezza eccetera, che questo garantisce e che sarebbe messo a repentaglio dalla Brexit. Tra queste due visioni è difficile (se non impossibile) trovare punti d’accordo, perché sono basate su priorità e obiettivi diversi. Questo è anche il motivo per cui, nell’impervio tentativo di trovare un compromesso accettabile, il deal negoziato dalla May ha di fatto scontentato tutti (i brexiteers, per i quali rimane un vincolo troppo forte con la Ue, e i remainers, per i quali il prezzo da pagare in termini economici è ancora troppo alto, soprattutto in proporzione a quello che si ottiene).

3) Un’ambiguità sul voto del referendum in quanto tale. Questo può essere considerato forse l’origine di tutti i problemi. Nel referendum si chiedeva semplicemente di dichiararsi a favore o contro il rimanere nella Ue, senza alcuna specificazione sui dettagli e sulle implicazioni. Visto che naturalmente tutto si gioca invece sui dettagli e sulle modalità con cui viene negoziata l’uscita stessa, si fatica a comprendere il continuo richiamo al rispetto della volontà dell’elettorato, quando di fatto l’elettorato non ha potuto esprimersi sui dettagli dell’uscita. Da entrambi gli schieramenti si dice che “questo deal non rispetta la volontà emersa dal referendum”, ma quale sarebbe esattamente questa volontà? Un conto è esprimersi a favore dell’uscita, un conto è specificare su che basi questa debba avvenire.

La materia è naturalmente complessa ma, volendo semplificare un po’, questi tre elementi aiutano a comprendere le enormi difficoltà di trovare un accordo e una giustificazione che possano riscuotere consenso diffuso nella classe politica e nel Paese (sembrerebbe, infatti, paradossale che lo scoglio maggiore sia nel trovare un accordo in Gran Bretagna piuttosto che tra Uk e Ue).

L’elemento “irrazionale”

Tutto questo senza dimenticare un altro elemento chiave, e cioè il patriottismo (o nazionalismo) radicato del popolo inglese, caratterizzato da una mitologia indipendentista e sovranista, che ancora pulsa con forza nel sangue del sentimento di tanti, a destra e sinistra.

Nessun politico è pronto a mettere apertamente in discussione questo sentimento diffuso (forse la vera ragione della Brexit) e chi l’ha fatto ha pagato un duro prezzo elettorale; allo stesso tempo pochi, a buon diritto o no, hanno il coraggio di metterlo alla prova dei fatti. Il compromesso della May è dunque un tentativo creativo di evitare il tribunale della realtà, salvando le apparenze (nel XXI secolo può il Regno Unito essere veramente indipendente? e cosa significa?).

Tre possibili scenari

Al momento tre sembrano gli scenari possibili (anche se, data la situazione, tutto potrebbe cambiare da un giorno all’altro):

1) La May riesce a ottenere l’approvazione del suo piano da parte del Parlamento. Se così fosse, l’accordo sul divorzio con la Ue sarebbe concluso (ma tutto il resto dovrà essere negoziato nei prossimi due anni). Al momento questo rimane lo scenario meno probabile, alla luce delle intenzioni di voto di Labour, Snp, Dup e di molti tories.

2) La May non ottiene l’approvazione del Parlamento. A questo punto tutto può succedere (richiesta di un nuovo referendum, elezioni anticipate, uscita senza deal). La May potrebbe anche dover affrontare un voto di sfiducia sulla sua premiership anche prima.

3) La May decide di chiedere più tempo alla Ue per trovare un accordo, estendendo l’articolo 50 oltre l’attuale data di uscita di marzo 2019.

Per quanto detto precedentemente, risulta difficile al momento ipotizzare come si possa trovare un accordo tra le diverse posizioni, anche perché ci sono alcune questioni decisive (come la volontà di evitare un hard border in Irlanda del Nord) che non possono essere ottenute senza mantenere l’accesso al mercato unico e quindi andando contro la volontà politica della maggioranza dei brexiteers.

Va anche riconosciuto un punto sul quale è difficile dissentire dalla May: se anche il suo deal può avere delle falle, nessuno è stato finora in grado di presentare un’alternativa migliore.

Senza dimenticare, poi, che, anche se questo accordo di divorzio venisse poi approvato, ci sarebbe ancora un anno e mezzo di tempo in cui discutere nei dettagli i futuri accordi economico commerciali, di sicurezza, eccetera tra Uk e Ue, per cui il percorso è ancora lungo in ogni caso.

In ultimo, sarebbe forse impossibile interpretare tutto questo senza considerare un elemento di irrazionalità che sembra aleggiare – irrazionalità non tanto legata alla scelta o meno di uscire (si può concordare o dissentire con gli argomenti di alcuni brexiteers, ma essi riflettono una scelta precisa, non irrazionale) quanto a una certa superficialità sulle implicazioni pratiche della scelta di uscire, da un punto di vista economico, sociale, culturale, logistico e commerciale, che si è tradotto in un dibattito pubblico molto confuso e poco chiaro sui rischi e benefici dell’uscire e del rimanere.

Logica vorrebbe che ci sia chiarezza sul perché una decisione vada presa prima di prenderla, piuttosto che prendere una decisione per poi cercare di giustificarla.

Michele Castelli e Giuseppe Pezzini