Lo stato islamico (Isis) al nord della Siria ha riconquistato gran parte dei territori liberati dalla coalizione Usa che aveva creato la milizia denominata Syrian Democratic Force (Sdf). La situazione attuale è pressoché quella di maggio 2018.
E’ un dato sorprendente: nonostante un potenziale bellico pressoché illimitato, la coalizione internazionale non riesce a tener testa ad appena due migliaia di elementi dell’Isis, da mesi circondati e senza rifornimenti.
A complicare ulteriormente le cose, la Sdf si è spaccata. La componente araba espressa dalla Comitato di Deir el-Zor si è scissa dalla componente curda per insanabili dissidi interni.
Inoltre, l’Isis — che dovrebbe essere quasi totalmente decimato — torna in auge anche dalla parte del territorio sulla sponda ovest dell’Eufrate, dov’era stato completamente sconfitto grazie alla Russia e all’Iran, ma solamente in prossimità del “buco nero” di al Tanf, la località presidiata dagli Usa e off-limit alle truppe siriane.
La situazione più drammatica è però sulla riva ad est dell’Eufrate. Qui, l’Sdf che in poco più di un mese ha perso circa 250 uomini nei combattimenti per contenere la controffensiva dell’Isis, ha ora un altra minaccia da affrontare: la Turchia ha attaccato da nord le forze curde dell’Sdf costringendole in una tenaglia (da una parte i turchi e da una parte l’Isis).
In questo contesto Washington, mentre non tollera che un solo soldato siriano oltrepassi l’Eufrate anche solo per combattere l’Isis, tace su qualunque iniziativa presa da Ankara. Peraltro Erdogan ha avvisato che i combattimenti in corso sono solo preliminari: la grande offensiva turca per “liberare” tutta la Siria del nord dall’amministrazione curda deve ancora iniziare. Per queste ragioni il comando dell’Sdf curdo, vedendosi tradito dagli Usa, ha emesso provocatoriamente un comunicato in cui afferma che interromperà ogni iniziativa militare contro l’Isis. Ma la tanto sperata risposta statunitense non c’è stata ed è imminente che l’Isis debordi al di là della frontiera irachena.
Forse è proprio questo che vuole Washington: ridare nuovo slancio all’Isis per agire in Iraq e fare leva così sul presidente neo-eletto Barham Salih, di cui non gradisce la vicinanza agli iraniani.
Dispiace dirlo ma questi eventi sono solo varianti sul tema per fare in modo che la Siria non esca dal tunnel. La Turchia persegue la sua oscura ossessione di annettersi “amichevolmente” parte della Siria; gli Stati Uniti rimangono aggrappati ancora all’“Assad se ne deve andare” anche se il presidente siriano dimostra di essere l’unico in grado di tenere insieme i cocci e di avere il supporto della maggior parte della popolazione siriana.
Washington fa quello che fecero Francesco I di Francia ed Elisabetta I d’Inghilterra che finanziavano la pirateria per attaccare gli avversari politici e danneggiarli dal punto di vista economico nel Mediterraneo. In tal senso, le ultime esternazioni del capo del capo del Pentagono, J. Mattis, all’Institute of Peace degli Stati Uniti il 30 ottobre a Washington, non sono fraintendibili: “Qualsiasi elezione svolta sotto gli uffici del regime siriano non avrà alcuna legittimità nei confronti del popolo siriano o della comunità internazionale”.