Ieri sera era difficile scegliere fra il disperato tentativo del Emmanuel Macron di salvare la sua presidenza nella Francia caotica dei gilets jaunes o quello di Theresa May di restare premier in una Londra che sembra decisa a correre il rischio-caos di una hard Brexit. E stavolta a destabilizzare Borse e cancellerie (e ormai anche le capacità di racconto e giudizio dei media) non sono state la Grecia o l’Italia. Sono i Paesi che si contendono il primato storico di aver portato la storia nella modernità delle libertà politiche ed economiche. I formali vincitori europei della “Seconda guerra dei trent’anni”, iniziata nel 1914 e conclusasi nel 1945.



Eppure su entrambi i lati della Manica, ieri, è andato in scena un eguale dramma politico-istituzionale: fra l’altro esteso al Belgio (il paese che ospita la sede della Ue). Qui il governo è andato in crisi perché i nazionalisti fiamminghi hanno voluto impedire al premier di andare all’Onu a votare il Global compact. In Germania, intanto, sono ben pochi a festeggiare la “piccola vittoria” (51 a 49) della delfina di Angela Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer nella corsa per la leadership della Cdu. E in Svezia, cento giorni dopo il voto, non c’è ancora un esecutivo: il seggio di Stoccolma potrebbe restare vuoto al vertice Ue di fine settimana, conclusivo dell’anno e del semestre di presidenza austriaca.



Il male oscuro della Ue è veramente il debito italiano — o il suo governo — oppure sta emergendo in tutta la sua gravità l’implosione del “contratto sociale” nei Paesi del Nord? E’ più a rischio di “illiberalità” una democrazia neo-populista o una vetero-tecnocratica? Domani il premier italiano Conte sarà in ogni caso chiamato alla sbarra, in una Bruxelles sempre più surreale. Sabato i gilets hanno cominciato a sconfinare anche attorno a Palais Charlemagne, dove il presidente della Commissione uscente, Jean-Claude Juncker, ha dovuto nel frattempo ricevere in emergenza la May.



La premier britannica è stata ricacciata indietro dalla Camera dei Comuni con le 600 pagine di accordo Brexit redatto secondo i parametri cari agli eurocrati. Due anni dopo il referendum, i parlamentari britannici sanno che il loro elettorato continua a detestare l’Europa di Bruxelles e a non tollerare il fatto stesso di dover negoziare un esito democratico. E in filigrana si continua a scorgere una rabbia ribellistica contro il marito della May e i suo colleghi banchieri della City di Londra (anche Macron, peraltro, è passato da Rothschild e sembrava pronto a raccogliere i frutti di Brexit con il massiccio trasferimento della banche a Parigi).   

Conte, dal canto suo, dovrà rispondere delle accuse di sforamento grave delle regole finanziarie di Maastricht a un commissario francese designato alla Ue da un ex presidente socialista sconfitto da Macron e oggi simpatizzante dei gilets. La manovra italiana sarà sotto esame da Pierre Moscovici — sotto minaccia di procedura d’infrazione — dopo che il presidente francese in carica ha appena dichiarato un affannoso “stato d’emergenza economica e sociale”, alzando il salario minimo di legge a spese del fisco (già in deficit del 2,7%) e di un probabile riflesso inflazionistico; e senza ripensamenti sul taglio delle tasse “trumpiano” deciso l’anno scorso dall’Eliseo sui grandi patrimoni. Brioches apparentemente piccole — e prive di qualsiasi valenza politica — in un Paese che nell’ultimo fine settimana, fra blindati e arresti di liceali, assomigliava al Cile del 1973. 

Chissà se Nanni Moretti non avrebbe fatto meglio a girare in presa diretta appena di là delle Alpi. In fondo nel 1977 furono proprio i nouveaux philosophes francesi i testimoni-reporter d’eccezione della primavera di Bologna: i carri armati di Francesco Cossiga contro i sogni di primavera di Radio Alice. Macron era appena nato, quindi non poté leggere cosa scrivevano Libération nella Parigi post-gollista di Giscard D’Estaing: “La Francia s’annoia, i lavoratori lavorano, gli studenti studiano, Parigi è triste e grigia. L’Italia invece, mai così animata dalla politica, ribolle di passioni”.