Come è noto, la scorsa settimana il presidente americano Trump ha comunicato con un tweet la sua decisione di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria. Con un altro tweet ha poi spiegato: “Abbiamo sconfitto l’Isis in Siria, la mia unica ragione per esserci stato durante la Presidenza Trump”. Quindi ha specificato che “Russia, Iran e Siria sono i nemici locali di Isis e continueranno a fare il lavoro”. Secondo i funzionari statunitensi, il ritiro delle truppe richiederà dai 60 ai 100 giorni.
Per comprendere quanto sia esplosiva questa notizia, basti pensare che il rappresentante speciale per la Siria James F. Jeffrey fino a pochi giorni prima aveva sostenuto che le truppe statunitensi sarebbero rimaste in Siria a tempo indeterminato, anche dopo la sconfitta dell’Isis.
Le motivazioni per rimanere spaziavano dal pericolo dell’Isis, al preservare il popolo siriano dal “dittatore Assad”, fino al pericolo iraniano e a Hezbollah.
Tuttavia, come abbiamo già visto in precedenza, lo scopo vero della permanenza degli Usa in Siria era la realizzazione operativa del piano “Tymber Syacamore” che vede nella destabilizzazione della Siria la maggior garanzia di sicurezza per preservare la supremazia del miglior alleato degli Stati Uniti nell’area, Israele.
Il piano ha costituito la road map della maggior parte dei rappresentanti del Congresso Usa ed è stato appoggiato dalle potenti lobby dell’apparato industriale-militare — il cosiddetto “Deep State” — che esercita una enorme pressione nella politica statunitense.
Si capisce allora come fosse vista (e come lo sia tuttora) l’intenzione di Trump di fare un passo indietro, ovvero tornare ai concetti di “deterrenza”, di “soft power” e di abbandonare l’unilateralismo a favore di due sfere d’influenza. Del resto, sin dal suo primo discorso da presidente, Trump ha espresso chiaramente la sua volontà di “prosciugare lo stagno”, ovvero allontanare le lobby e i vari “gruppi di pressione” (come Atlantic Council, American Enterprise Institute, Rand Corporation, Aspen Institute, Cfr, Carnegie Endowment), dalle decisioni della Casa Bianca.
Poi sappiamo com’è andata: il Deep State ha scatenato contro di lui una guerra a tutto campo, basata sul “pericolo russo” che ha portato immediatamente alle dimissioni forzate del consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, colpevole di non aver rivelato all’Fbi di aver avuto contatti con l’ambasciatore russo prima di ricoprire l’incarico (l’aveva rassicurato sulla rimozione delle sanzioni). Come ricorderete, dopo le dimissioni di Flynn esponenti del partito democratico hanno chiesto un’indagine sui rapporti tra Donald Trump e la Russia. Perché — hanno pensato — se Flynn si è dimesso per aver detto una bugia, se anche Trump sapeva, ha detto anche lui una bugia. Insomma l’idea era che ci fosse in atto una cospirazione, “gli americani sono stati ingannati” da “quell’individuo che siede alla Casa Bianca”. Ma chi era l’accusatore che sosteneva che “gli americani sono stati ingannati”? Era il partito di Hillary Clinton e McCain, che tranquillamente durante l’amministrazione Obama hanno avuto contatti con i leader dei terroristi siriani, e che comunemente hanno fatto operazioni segrete all’insaputa del popolo americano. Ovviamente si sono giustificati di averlo fatto “per la sicurezza nazionale”.
Insomma non è strano che ora Trump cerchi di prendere la sua rivincita. In tutti i modi, la decisione del ritiro era stata anticipata più volte ma evidentemente nessuno nell’amministrazione le aveva dato peso. La riprova è che già ad aprile — in una conferenza stampa — Trump aveva detto che la missione degli Stati Uniti di combattere il gruppo terrorista dello stato islamico era “quasi completata’’. In quell’occasione aveva detto: “Voglio uscire, voglio riportare le truppe a casa, voglio ricominciare a ricostruire la nostra nazione”.
Del resto, un’ulteriore conferma che l’intenzione di Trump fosse stata da sempre quella di aspettare il momento politicamente più opportuno per ordinare il disimpegno, lo dimostra uno dei tweet di venerdì scorso, dove — citando Anthony J. Tata — afferma che “i geni che stanno protestando per il ritiro, sono gli stessi che hanno implementato le [attuali] politiche mediorientali che hanno poi dato luogo all’Isis”.
Ma chi sono “i geni” a cui si riferisce Trump? Ovviamente si riferisce a chi ha avuto la “luminosa idea” di usare l’Isis come “facilitatore” per il regime change in Siria. Che tutto questo sia effettivamente successo è negato solo dai media mainstream, nonostante esistano prove documentali incontrovertibili della stessa Dia, il servizio segreto militare statunitense.
Tutto è chiaro ma ciononostante una vasta schiera di politici e militari oggi non tollerano che Trump sia uscito fuori dal copione assegnatogli. Così il Congresso critica aspramente; il capo del Pentagono, il gen. Jim Mattis, contrariato, si è dimesso; alcuni senatori repubblicani hanno scritto una lettera al presidente in cui manifestano tutto il loro disappunto.
Eppure sembra che per gli Stati Uniti quella tracciata da Trump fosse l’unica direzione percorribile: ormai la Turchia aveva fatto capire chiaramente che gli Stati Uniti dovevano scegliere tra l’alleanza con i curdi o con Ankara. Era chiaro che se Trump non avesse preso la decisione del ritiro, la Turchia avrebbe lanciato la sua offensiva contro le forze curde nel nord della Siria. La conseguenza sarebbe stata un progressivo allontanamento della Turchia dall’alleanza atlantica. Senza contare che comunque gli Stati Uniti avrebbero dovuto ridimensionare il proprio impegno, a meno che non fossero disposti ad uno scontro diretto con la Turchia.
Quindi i curdi saranno lasciati in balia di Erdogan? Non accadrà: il presidente turco, dopo la decisione di Trump, ha annunciato di sospendere ogni operazione. Nel frattempo, funzionari curdi hanno preso contatto con il governo siriano per un accordo che preveda il presidio delle zone di confine da parte dell’esercito siriano, in cambio di un’autonomia amministrativa di quelle regioni.
La domanda piuttosto è se la decisione di Trump sopravvivrà alle forti pressioni già in corso. Se sì, la presenza statunitense in Iraq ed in Giordania sarà comunque in grado di supportare la lotta contro l’Isis (che ormai è nella condizione di implodere definitivamente) e garantire Israele. Il disimpegno Usa, soprattutto, consentirà la ricostruzione della Siria e — dopo sette anni — verrà a mancare l’elemento di maggior ostacolo per la fine del conflitto.