Entro il 29 marzo la procedura dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea dovrà essere completata, ma il cammino sembra essere ancora lungo e sta mettendo in grave difficoltà l’assetto stesso del Paese. Come diversi commentatori hanno sottolineato, la Brexit sta rendendo il Regno sempre meno unito e ciò indipendentemente dall’esito finale della questione. Il risultato stesso del referendum di due anni fa era stato già molto divisivo, con gli inglesi schierati per il Leave, insieme ai gallesi, peraltro meno decisi in proposito, mentre gli scozzesi erano per il Remain e i nordirlandesi, pur in maggioranza per rimanere, mostravano anche in questa occasione divisioni tra cattolici e protestanti. Con Londra schierata nettamente per rimanere nell’Ue, a differenza del resto dell’Inghilterra. Da subito partì la richiesta per un nuovo referendum, che allora raccolse moltissime firme e che è ora tornata alla ribalta di fronte alla proposta di accordo del governo di Theresa May. Quest’ultima, personalmente a suo tempo per il Remain, ha dovuto affrontare nelle trattative una controparte che considerava il legittimo utilizzo di un articolo del Trattato come un reato di lesa maestà, all’insegna del “pagherete caro, pagherete tutto”.
La conseguenza è una turbolenza raramente vista sulla scena politica britannica, dove i contrasti sono tra le diverse nazionalità, tra i partiti e all’interno degli stessi partiti, principalmente tra i Conservatori. Theresa May ha evitato la sfiducia del suo partito solo impegnandosi a non ripresentarsi alle prossime elezioni, ma la battaglia si è riaccesa con la sua decisione di rinviare la discussione dell’accordo a gennaio, due mesi prima della data finale per la Brexit. L’accordo raggiunto con Bruxelles non soddisfa nessuno, né i Remainers, né i Brexiteers, e si fa sempre più vicina l’ipotesi del “no deal”, di un’uscita senza accordo, l’esito ritenuto più dannoso, per l’Uk ma probabilmente anche per l’Ue, anche se a Bruxelles i commissari, a loro volta in scadenza, sembrano non darsene pensiero.
In questa convulsa situazione è arrivata, all’inizio di dicembre, una decisione della Corte di Giustizia europea che avrebbe meritato una maggiore e più estesa attenzione, in quanto trascende il caso britannico. Sulla base dell’esposto di un tribunale scozzese, la Corte ha decretato che il Regno Unito può revocare unilateralmente la decisione di uscire dall’Unione, rientrandovi con le stesse condizioni che aveva prima del ricorso all’Articolo 50 del Trattato di Lisbona. La decisione, che deve essere presa secondo le norme costituzionali del Paese e notificata prima del 29 marzo, dà nuove armi in mano ai Remainers, anche se i tempi sono molto stretti, per esempio per indire il già ventilato secondo referendum. Vista però la diffusa opposizione all’accordo raggiunto dalla May, non si può escludere un voto contrario del Parlamento e la concomitante decisione di notificare la rinuncia alla Brexit entro i tempi richiesti.
Se ciò avvenisse, si creerebbe una nuova e imprevista situazione, che se da un lato continuerebbe il dibattito interno al Regno Unito, dall’altro ne creerebbe uno ancor più difficile all’interno dell’Unione, se non altro per i problemi che porrebbe la rinnovata convivenza con gli ex transfughi britannici. Inoltre, questo colpo di scena avverrebbe con gli organi europei in scadenza e la gestione della questione sarebbe di fatto rimandata a dopo le elezioni europee del prossimo maggio, cui parteciperebbero a questo punto anche i britannici.
Alla decisone della Corte si è opposto non solo il governo di Londra, ma anche la Commissione e il Consiglio Europeo, timorosi dell’applicazione della delibera da parte di altri Stati dell’Unione. Se uno Stato può invocare l’art. 50 e poi, se le trattative non migliorano la sua situazione, rientrare mantenendo immutate le condizioni precedenti, Bruxelles vede indebolita la sua forza contrattuale e posizioni tipo “prendere o lasciare” non sarebbero più consentite. Sotto un altro aspetto, tuttavia, la decisione potrebbe essere utilizzata anche dall’Unione per “liberarsi” di membri ritenuti scomodi, della serie “a nemico che fugge, ponti d’oro” (nda: l’uso di locuzioni popolari serve a meglio indicare quale sia la reale natura dei rapporti all’interno dell’Ue, ben lontani da ciò che vorrebbe la narrazione europeista).
Se diversi Stati membri seguissero questa strada, si creerebbe per l’Unione Europea una situazione di continua instabilità certamente non auspicabile, ma questo rischio potrebbe spingere gli organi europei che nasceranno dalle prossime elezioni a una revisione sostanziale dei trattati e della loro applicazione, così da tener più conto delle diversità tuttora notevoli che esistono all’interno dell’Unione e della volontà dei popoli che la compongono. Una sfida e un’opportunità anche per l’Italia.