SAN PEDRO SULA (Honduras) — Il popolo ha detto basta. Quel popolo che abbassa la testa, che si becca tutto senza reagire, quello succube, quello che non dice niente perché la sua voce non conta nulla. Il 26 novembre 2017 in Honduras si sono svolte le elezioni presidenziali e il popolo ha detto basta. L’ha detto con la sola arma che aveva: la libertà di dire No, non ci sto più.



La Costituzione vieta la rielezione del presidente, ma uno dei due candidati, il presidente uscente Juan Orlando Hernandez del partito di destra, el Partido Nacional, si è ricandidato dopo quattro anni di mandato. La stessa cosa era accaduta nel 2009 quando l’allora Presidente Manuel Zelaya aveva chiesto un referendum per chiedere al popolo di modificare l’articolo che proibiva la rielezione. Il risultato era stato un colpo di Stato che aveva mandato in esilio Zelaya e scosso tutto il Paese che già si trovava in una povertà estrema. Da quella batosta, infatti, l’Honduras non si è più ripreso.



Nel 2015, il presidente Hernandez aveva chiesto alla Corte suprema, a lui fedele, l’autorizzazione per candidarsi nuovamente. La Corte lo aveva autorizzato, nonostante la Costituzione lo vieti esplicitamente. Così, dopo quattro anni di governo, Juan Orlando Hernandez si è ricandidato.

Il candidato d’opposizione, Salvador Nasralla, della coalizione Alianza de Oposición contra la Dictadura, partito di sinistra, quella domenica sera del 26 novembre era in vantaggio durante lo spoglio delle schede elettorali che arrivavano per lo scrutinio da tutte le regioni del Paese. Non si era mai visto, nella storia politica dell’Honduras, che a tre giorni dalle elezioni il Tribunale supremo elettorale non avesse comunicato chi dei due candidati fosse in vantaggio. A tre giorni dalle elezioni, il sistema che conta le schede sottoposte a scrutinio si è bloccato per un giorno intero. Quando ha ricominciato a funzionare, era in vantaggio Juan Orlando Hernandez.



Nasralla ha denunciato irregolarità nel sistema di conteggio dei voti e ha invitato i suoi sostenitori a scendere in piazza. Sono così iniziate marce e proteste e la repressione dei militari e della polizia di Stato non si è fatta attendere. Neppure il coprifuoco è tardato ad arrivare; per dieci giorni tutto l’Honduras è stato obbligato a chiudersi in casa dalle 18 alle 6. Ma neanche questo ha zittito il popolo. Per una settimana alle 22 iniziava il “Cacerolazo”: obbligati a non uscire, dalle finestre migliaia di cittadini battevano sulle pentole per gridare il loro scontento e rivendicare il loro diritto alla democrazia. Più di trenta persone sono state uccise e ottocento arrestate. L’Oea, l’Organizzazione degli stati americani, osservatore elettorale, non ha riconosciuto il risultato delle elezioni del 26 novembre dichiarando che non possono considerarsi legittime. Il 22 dicembre però il Tribunale supremo elettorale, vicino al Partido Nacional, ha dichiarato vincitore Hernandez che il 27 gennaio 2018 ha prestato giuramento come presidente. Nasralla ha denunciato brogli e decine di migliaia di honduregni vicini all’opposizione sono scesi in piazza per protestare. Da allora quasi quaranta persone sono state uccise. Alcune Ong e l’Alto Commissionato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani hanno denunciato arresti arbitrari e operazioni per intimorire i manifestanti e i giornalisti.

Questa crisi politica post-elettorale ha già segnato la storia dell’Honduras, più della crisi politica seguita al colpo di Stato del 2009, anche se entrambi gli eventi hanno visto la stessa mania di potere dei due presidenti, la repressione delle forze dell’ordine e il parere contrario inutile dell’Oea. In una cosa però differiscono: questa volta il popolo ha detto basta. O almeno, ci ha provato.