Un’attenta analisi dello scenario geopolitico degli ultimi decenni evidenzia un succedersi di sostanziali sconfitte della politica internazionale degli Stati Uniti. Ne è prova il dibattito in corso negli stessi Usa sulla fine del “Secolo americano”, con il fallimento di ciò che si definisce tuttora “Eccezionalismo americano”, dimostrato dalla conclamata incapacità a costruire nuovi assetti civili dopo distruttivi interventi di regime change.



La convinzione di avere il compito, anzi, la missione di portare nel mondo il proprio modello di democrazia, ritenuto il migliore, si è sempre più scontrato con la dura realtà, rischiando di mettere in discussione le basi stesse su cui si fondano gli Stati Uniti.

Lo slogan “America First” di Donald Trump tenta di individuare, sia pure in modo confuso e non lineare, una strategia di contenimento alla riconosciuta decadenza statunitense. Una strategia che ha caratteristiche difensive e che si presenta, spesso con modalità brutali, come una sfida a 360 gradi all’insegna del “siamo stufi di pagare i conti per tutti”. I toni, fuor di dubbio populisti, suonano però popolari tra la massa di americani che si sentono ormai definitivamente esclusi dall’altro grande mito disatteso: il “Sogno americano”.



Il sistema istituzionale, il Deep State democratico e repubblicano, continua invece su un’altra lunghezza d’onda, deciso a mantenere a tutti i costi il predominio americano. Questa strategia si basa essenzialmente sullo strapotere militare, che ora deve tuttavia fare i conti con altri agguerriti concorrenti, Cina e Russia. Il risultato è una sempre più accelerata corsa al riarmo e la ricerca di armi sempre più letali. Sotto questo profilo è significativa l’inversione nella politica nucleare rispetto all’amministrazione Obama, con l’aumento degli stanziamenti per armi nucleari tattiche, utilizzabili in conflitti locali.



Entrambe le posizioni non sembrano comunque in grado di produrre una politica estera ragionevole, soprattutto per una limitata capacità di leggere situazioni storiche, culturali e sociali lontane dai loro schemi. Una capacità che gli Stati Uniti sembravano avere fino alla seconda guerra mondiale, forse perché ancora almeno in parte dipendenti dalle elaborazioni culturali dell’Europa, prima che questa distruggesse se stessa. Così non si è tenuto alcun conto della storia russa, di come perfino l’Unione Sovietica avesse dovuto utilizzare il concetto storico-nazionalista della Grande Madre Russia, non solo durante la guerra, ma anche dopo.

Si pensi alla disastrosa avventura sovietica in Afghanistan, a quella guerra combattuta, e persa, dal 1979 al 1989. Lo scopo era instaurare un regime comunista nel Paese, ma in filigrana si poteva vedere una ripresa dello scontro ottocentesco tra Impero zarista e Impero britannico, quel “Great Game” immortalato da Rudyard Kipling. Per l’Unione Sovietica la guerra afghana fu uno dei motivi della sua dissoluzione; per gli Stati Uniti, l’Afghanistan è la prova più consistente del fallimento della sua politica estera e militare. Dopo 16 anni di guerra, il governo sostenuto dagli Usa e dalla cosiddetta comunità internazionale controlla, e male, solo la metà del territorio del Paese, che continua a essere teatro di attentati non solo dei talebani, ma anche di al Qaeda e perfino dello “sconfitto” Isis.

Esito altrettanto negativo hanno avuto le successive guerre avviate o appoggiate dagli Stati Uniti: Iraq, Siria, Libia, Yemen. Quest’ultima ha dato luogo, secondo l’Onu, alla peggiore catastrofe umanitaria degli ultimi decenni, ma ciò non ha sollevato alcuna reazione tra i moralissimi sostenitori dell’eccezionalismo americano. Negli altri casi, i vincitori sono stati gli avversari degli Usa, con il crescente protagonismo della Russia di Putin e la continua espansione dei movimenti jihadisti.

Né le cose sono andate meglio in Europa, con l’esito completamente negativo dell’operazione ucraina. Lo sfortunato Paese si ritrova, dopo aver perso la Crimea, con una guerra civile in casa, un’economia a pezzi e un sistema ancora in preda a una diffusa corruzione.

Ma anche con la Ue le cose non sono lisce e si è passati dallo smaccato “protezionismo politico” di Obama – si ricordi l’intervento a gamba tesa prima del referendum sulla Brexit – alle polemiche direttamente anti-europee di Trump.

Il Pacifico è forse l’area in cui gli Stati Uniti si ritrovano maggiormente sulla difensiva, di fronte all’espansionismo imperialista cinese, che estende le sue propaggini anche al “cortile di casa” sudamericano. D’altra parte, le sconfitte americane in Asia datano già dalla fine della seconda guerra mondiale. La guerra di Corea negli anni 1950-1953, se salvò la Corea del Sud, consegnò quella del Nord alla dittatura comunista e, dopo 65 anni, Pyongyang si presenta ancora come il possibile detonatore di una guerra nucleare globale. Vent’anni dopo la fine della guerra coreana, con la caduta di Saigon nel 1975 e la riunificazione del Paese sotto un regime comunista, terminava anche la guerra del Vietnam, forse il conflitto con le maggiori conseguenze divisive all’interno degli stessi Stati Uniti.

Vi è poi un altro attore, che si sta sempre più rivelando globale, su cui gli Stati Uniti dimostrano di non avere alcuna precisa percezione, comportandosi come lo sciocco nel proverbio del dito e della luna, ed è l’islam. Gli Stati Uniti continuano a indicare il dito del terrorismo e non la luna, cioè l’obiettivo di islamizzazione con ogni mezzo dell’intero globo che caratterizza una parte rilevante del mondo musulmano, pur molto diviso al suo interno. Eppure, proprio la componente “missionaria” di questo progetto dovrebbe renderlo più intellegibile agli “eccezionalisti” americani.

In questo errore di visuale sono peraltro in buona compagnia.