La recente intervista sul sussidiario al generale Marco Bertolini descrive con chiarezza come la guerra in Siria sia ben lungi dal terminare, con conseguenze sempre più dolorose per la popolazione civile. La minaccia dell’estremismo islamico è sempre presente, malgrado la sconfitta dell’Isis, peraltro non definitiva, mentre continua la guerra contro il governo di Damasco. 



Questa guerra sta evidenziando l’errore di calcolo della precedente amministrazione Obama, che contava evidentemente su una rapida caduta del regime e la conseguente stabilizzazione della Siria sotto l’egida di Washington. Assad è invece tuttora in sella e non proprio sulla difensiva, il ruolo della Russia è sempre più determinante, si è aperto il problema curdo con il conseguente intervento della Turchia, che continua a mantenere un comportamento ambiguo verso gli estremisti islamici, ed è sempre più difficile identificare i “moderati” tra le numerose milizie sul campo e le loro mutevoli alleanze.



Come correttamente afferma il generale Bertolini, anche Donald Trump non è stato in grado di resistere allo strapotere dell’establishment. Esso può così continuare con la sua irragionevole e pericolosa strategia, che pare non tener in alcun conto le precedenti esperienze. Quella dell’Iraq, per esempio, dove prima dell’invasione americana del 2003 la minoranza sunnita governava con la forza sulla maggioranza sciita e sui curdi. Dopo la caduta di Saddam Hussein, la maggioranza sciita è diventata predominante, una delle cause per cui anche sunniti non vicini all’Isis ne sono diventati fiancheggiatori. Dal canto loro, i curdi non si accontentano più dell’attuale autonomia all’interno di un Iraq unito e chiedono la completa indipendenza.



In Siria era la minoranza alauita, appartenente al mondo sciita, a governare con la forza sulla maggioranza sunnita e il timore degli sciiti di essere a loro volta repressi in una Siria governata dai sunniti è una delle ragioni della tenuta del regime di Assad. D’altra parte, i sunniti dimostrano di essere notevolmente divisi al loro interno. In questo scenario, solo un reale accordo tra le potenze esterne coinvolte nel Paese, in primo luogo Usa e Russia, poi Iran, Turchia e Arabia Saudita, può portare a imporre una soluzione accettabile da tutte le fazioni locali in lotta. Ma questa ipotesi, purtroppo, sembra essere lontana.

In realtà un cambiamento Donald Trump lo ha portato, con il suo sostanziale rifiuto dell’accordo sul nucleare con l’Iran e con le sue nette aperture in favore del governo di Benjamin Netanyahu. Questo atteggiamento ha di fatto favorito la strategia aggressiva del premier israeliano in Siria, con ripetuti bombardamenti delle postazioni governative. La Siria sta così diventando terreno di scontro tra Iran e Israele, per il momento indiretto, ma che potrebbe trasformarsi in una guerra frontale, e occorre ricordare che Israele possiede armi atomiche e potrebbe essere spinto ad utilizzarle per impedire che ne costruisca, o se ne procuri, anche Teheran.

Il governo israeliano ha messo nel mirino anche Hezbollah, non del tutto senza ragioni, ma ciò determina una situazione di conflitto con il Libano, che ha appena raggiunto un’unità politica in vista delle prossime elezioni legislative. La componente cristiana, cui appartiene il presidente Michel Aoun, e quella sunnita, che esprime il primo ministro Saad Hariri, non sono di certo disposte a rischiare una nuova guerra civile contro lo sciita Hezbollah, tra l’altro molto ben armato. L’accusa a Hezbollah di operare al di fuori del Libano, cioè in Siria, a sostegno di Assad, è vera, ma suona ridicola visto il numero di “attori” esterni sulla scena siriana, molti dei quali con minori interessi diretti nella questione.

I motivi di contrasto tra Libano e Israele sono più ampi e vanno dalle controversie per lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini di idrocarburi alle proteste di Beirut contro la decisione di Israele di costruire un muro sul confine con il Libano. Un intrico di problemi cui si è trovato di fronte il segretario di Stato americano Rex Tillerson durante la sua visita a Beirut all’inizio della scorsa settimana. Tillerson ha attaccato duramente Hezbollah, ma ha cercato di mediare sugli altri fronti di scontro tra Israele e Libano, riaffermando il completo appoggio degli Stati Uniti al Paese dei Cedri.

L’impressione è, tuttavia, che i rapporti non siano poi così distesi e molto risalto è stato dato dai mezzi locali al fatto che Tillerson abbia dovuto attendere diversi minuti prima di essere ricevuto da Aoun. Ufficialmente si è attribuito il fatto all’anticipato arrivo di Tillerson rispetto al previsto, ma in molti rimane qualche dubbio in proposito, tanto più che Aoun è politicamente alleato con Hezbollah.