Ieri Erdogan è arrivato in Italia. Chi avrà il coraggio di contestare al “sultano” turco la pulizia etnica dei curdi ad Afrin? E non è forse italiana l’Alto Rappresentante della politica estera europea, Federica Mogherini? Giustizia per i curdi, i soli che hanno combattuto l’Isis. Questo bisognerebbe chiedere come comunità internazionale. E questa dovrebbe essere la posizione italiana ed ancor più quella europea. 



Simbolo della resistenza curda, in queste ore, è diventato un corpo mutilato. Ad essere uccisa Amina Omar, nome di battaglia Barin Kobani, combattente delle Ypj, le Unità di protezione popolare femminili, caduta vicino al villaggio di Qarnah vicino a Bulbul, a nord di Afrin. “Barin non si è arresa. Ha combattuto fino alla morte”, ha dichiarato Amad Kandal, portavoce delle Ypj, ricordando come la donna avesse preso parte alla battaglia di Kobane nel 2014. “Atrocità di questo tipo — ha aggiunto — non ci piegheranno ma ci renderanno solo più determinati nella resistenza”. Hanno mutilato il suo corpo, le hanno tagliato i seni, devastato l’addome e poi hanno esposto il cadavere come un trofeo, mostrandolo in due video di propaganda. 



Eppure quel simbolo rimanda ad uno scenario ancor più drammatico.

“Le notizie da Afrin non riguardano solo il futuro dei curdi nel nord della Siria e possono trasformare l’intera regione — la Turchia, l’Iraq e in particolare l’Iran — con profonde conseguenze per l’occidente e i suoi rapporti con una Russia sempre più influente, dinamica, abile”, parola di Gareth Stansfield, professore dell’Istituto di studi arabi e islamici di Exeter, nel Regno Unito. “È ora che i paesi occidentali chiariscano quali sono i loro obiettivi in Medio Oriente, al di là delle dichiarazioni di facciata sulla pace, la stabilità e la democrazia. Di sicuro è una questione estremamente difficile, ma ha bisogno di una risposta. E finché questa risposta non arriverà, quello che succede ad Afrin continuerà ad andare a vantaggio degli interessi di altri”.



Per quanto una delle motivazioni principali dell’azione turca ad Afrin venga identificata nella reazione alla volontà di Washington di creare un esercito di confine che includesse tra le sue fila anche le forze Sdf (Syrian Democratic Forces), all’indomani dell’attacco il segretario di Stato americano Rex Tillerson avrebbe offerto la possibilità di una fascia di sicurezza di 30 km lungo il confine sotto il controllo turco.

Prescindendo dalle dinamiche belliche interne al territorio siriano che, comunque, come nel caso di Idlib, Manbij o Aleppo, sono fortemente correlate con questi eventi, gli effetti collaterali di questo attacco devono essere analizzati nell’ottica di una politica di potenza da valutare a livello globale. La nuova politica neo-ottomana di Erdogan. Sotto questa luce, una sconfitta delle forze turche ad Afrin potrebbe, come già avvenuto con la vittoria contro lo stato islamico a Kobane, permettere ai curdi di dimostrare che è possibile perseguire un progetto di cambiamento anche in mancanza di padrini internazionali. 

Due narrative molto diverse, quella curda e quella turca: da una parte le Sdf hanno riportato l’uccisione di 308 uomini, tra soldati turchi e miliziani dell’Esercito Libero Siriano, e dunque di un’efficace resistenza da parte di Afrin, nonostante quasi 700 colpi di mortaio e 191 raid aerei si siano abbattuti sul nord-ovest della Siria dal 20 gennaio; dall’altra Ankara minimizza, con il ministero della salute che ieri dava un bilancio di tre soldati e 11 miliziani dell’Els (Esercito Libero Siriano) uccisi e 130 feriti, di cui 82 già dimessi dagli ospedali. E l’esercito aggiunge: non sono solo 43 i combattenti curdi uccisi ma 823. Il presidente Erdogan, grazie anche alla censura imposta alla stampa turca e corredata dagli ormai noti rastrellamenti, dipinge l’operazione come un successo. Tanto efficace che ieri ne ha annunciato l’allargamento: non più solo a Manbij, nel centro-nord, ma fino al confine orientale con l’Iraq. Ovvero l’esatto corridoio di terre che è Rojava, da Afrin a Jazira: “Ci sbarazzeremo dei terroristi di Manbij come promesso e la nostra battaglia continuerà finché nessun terrorista sarà più presente fino al nostro confine con l’Iraq”.

L’ampliamento delle mire turche, affatto inibite da un possibile faccia a faccia con i marines Usa di stanza a Manbij o dai velati appelli europei ribaditi giovedì a Bruxelles al ministro turco per gli affari europei Celik, ha mosso le autorità curdo-siriane, che giovedì hanno lanciato un appello al governo di Damasco affinché intervenga al loro fianco per fermare l’aggressione turca e la palese violazione della sovranità nazionale siriana. Al presidente Assad è stato chiesto di inviare l’esercito “a protezione delle frontiera della zona di Afrin”. Una mano tesa ad un governo con cui i curdi non sono mai entrati in conflitto, preferendo non allargare la fila delle opposizioni e non negando mai l’appartenenza alla nazione siriana: un anno fa Rojava lo ribadì ribattezzandosi Federazione del Nord della Siria, scevra di riferimenti a etnie o confessioni. 

In una lettera inviata a Paolo Alli, presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato, il delegato turco, Conkar, ha collegato quanto sta avvenendo in questi giorni ad Afrin con l’operazione Scudo d’Eufrate iniziata dalla Turchia nell’agosto del 2016 e ufficialmente dichiarata terminata da Ankara nel marzo 2017. Rivolgendosi a Scudo d’Eufrate Conkar precisa: “L’offensiva ha come obiettivo quello di eliminare il corridoio terroristico che è stato creato ai nostri confini e porre fine finalmente all’oppressione delle organizzazioni terroristiche sul popolo della regione e restaurare la pace nell’area”. Ad Alli è bastato. E se la Nato finge di non vedere, l’Ue è “preoccupata” per quanto sta accadendo, ma non ha in realtà il coraggio di fare nulla. 

Invece è dall’Egitto — e dai paesi del Golfo — che viene la condanna dell’avanzata turca. Il Cairo parla esplicitamente di “violazione della sovranità” della Siria. Il riposizionamento geopolitico dell’asse sunnita mostra come la partita per la spartizione della Siria è già in atto. Turchia, Arabia Saudita, Iran, Qatar, Iraq, Egitto, Israele, Russia, Stati Uniti continuano la loro “guerra mondiale a pezzi”. Sui curdi cala il sipario della commedia degli inganni. L’ennesima tragedia di un altro popolo destinato alla diaspora. Quanti curdi vedremo presto sui barconi al largo di Lampedusa? Quanto ci costerà la politica dello struzzo?