Un recente discorso del primo ministro inglese, Theresa May, sullo stato delle trattative tra Regno Unito e Unione Europea relative alla Brexit ha portato in tutta evidenza le serie difficoltà che queste trattative stanno incontrando. Una frase della May suona particolarmente significativa: “Dobbiamo accettare il fatto che questa è una negoziazione e nessuno di noi può avere completamente ciò che vuole”. Un’affermazione, di per sé perfino ovvia, che sembra però un avvertimento diretto sia ai negoziatori della Ue, sia all’opinione pubblica britannica.



Le reazioni dei vertici dell’Unione sono state fin dall’inizio estremamente dure di fronte ai risultati del referendum inglese, trattati alla stregua di un reato di “lesa maestà”, e ancora oggi paiono talvolta improntate più a una rappresaglia che non alla ricerca di un accordo nell’interesse reciproco. Tuttavia, come segnalato da diversi commentatori, questo atteggiamento rischia di danneggiare la stessa Ue: il Regno Unito ha un peso ben diverso dalla piccola Grecia. Da parte loro, i negoziatori europei accusano la May di voler portare a casa il massimo dei risultati senza pagare dazio, accusa peraltro ribaltata dai britannici.



La questione sta riproponendo il problema delle relazioni con i singoli membri della Ue: l’atteggiamento descritto può infatti mettere sull’avviso altri Stati attualmente nel mirino di Bruxelles, come l’Ungheria o la Polonia. O dare ulteriori argomenti ai vari partiti euroscettici presenti nei vari Paesi dell’Unione. Interessante un articolo apparso dopo le elezioni italiane su The Telegraph, a firma Ambrose Evans-Pritchard, con dichiarazioni critiche verso l’atteggiamento di Bruxelles da parte di Matteo Salvini, Claudio Borghi Aquilini e Di Maio.

D’altro canto, anche nel Regno Unito stanno diventando sempre più chiari i costi non irrilevanti della Brexit e la frase della premier suona come un avvertimento ai suoi compatrioti: nessun accordo soddisfacente potrà essere raggiunto senza concessioni, anche pesanti, da parte dell’Uk. Una posizione sul filo del rasoio, che cerca di tenere insieme sia “Brexiteers”, almeno quelli meno estremisti, che “Remainers”, tra i quali si sta affacciando l’ipotesi di rimettere in discussione la stessa Brexit. Questa ipotesi, pur lontana, sta probabilmente rafforzando i “duri” dell’Unione, ma è un calcolo pericoloso, tanto più sullo sfondo delle minacce di una guerra dei dazi a seguito delle decisioni di Trump.



Theresa May deve affrontare un altro grave problema, dato dalle crescenti contrapposizioni tra le varie componenti del Regno Unito, già messe in rilievo dai risultati del referendum, con Scozia, Irlanda del Nord e Londra contro l’uscita dall’Ue e il resto dell’Inghilterra e il Galles a favore. Una parte degli scozzesi continua ad evocare un secondo referendum sull’indipendenza, nel caso di una versione dura della Brexit, mentre rimane difficile escogitare una soluzione che consenta all’Irlanda del Nord di mantenere l’attuale apertura della frontiera con l’Eire, pur non facendo più parte dell’Ue. La questione nordirlandese può rivelarsi un’arma in mano all’ala dura di Bruxelles, ma rischia di riaprire gli scontri tra cattolici e protestanti, una situazione disastrosa non solo per il Regno Unito e per l’Irlanda, ma per tutta l’Europa.

In questi giorni sono in programma incontri tra il governo britannico e i governi scozzese e gallese per affrontare un altro problema interno connesso alla Brexit. Comunque vadano i negoziati, l’uscita dall’Ue comporterà il rientro di una serie di poteri finora delegati all’Unione o condivisi con essa. Scozzesi e gallesi temono che il governo centrale riaccentri questi poteri su di sé, violando così i diritti dei governi e parlamenti locali.

Come si vede, la battaglia sulla Brexit si svolge su molteplici fronti e c’è solo da sperare che prevalga buon senso e realismo su rigidità ed estremismi, da qualunque parte provengano. Se si pensa che il Regno Unito non faceva parte dell’Eurozona e aveva una certa sua maggiore autonomia anche all’interno dell’Unione, c’è da chiedersi cosa succederebbe se un Paese volesse uscire dall’euro. O, forse, la domanda è mal posta: dall’euro si può solo essere cacciati, quando la guida, o Führer se si preferisce, lo deciderà.