Con l’uccisione di Osama bin Laden nel 2011, l’Occidente si illuse di aver eliminato il pericolo di al Qaeda e l’attenzione si spostò sullo Stato islamico fondato dall’Isis nel 2014 tra Iraq e Siria. La riconquista di questi territori nel 2017 ha portato molti a pensare che anche Isis fosse un pericolo sventato, ma, parafrasando uno slogan del passato, si potrebbe invece affermare che “Al Qaeda e Isis sono vivi e lottano con(tro) di noi”.
E’ questo il caso dell’Afghanistan, dove da più di 16 anni è in corso una guerra contro gli estremisti islamici, con moltissime vittime tra i civili e non trascurabili perdite tra i militari Usa e della Nato. Secondo un rapporto di fine gennaio del Sigar, i risultati sono decisamente deludenti: a ottobre 2017 solo il 56 per cento del territorio afgano era sotto il controllo del governo afgano, il 30 per cento conteso con gli islamisti e il 14 per cento sotto il controllo di questi ultimi. I dati sono ancor più negativi se confrontati con il passato: nel 2015, le percentuali erano nell’ordine il 72 per cento, il 21 per cento e il 7 per cento. Il Sigar (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction), è un organismo creato nel 2008 dal Congresso degli Stati Uniti per sovrintendere all’utilizzo dei circa 117 miliardi di dollari che, dal 2002, sono stati destinati all’Afghanistan. Visti i dati riportati, non sorprende che la loro pubblicazione abbia trovato forti ostacoli da parte del Dipartimento della Difesa.
Fuori dal controllo degli islamisti rimangono soprattutto i grandi centri abitati e in termini di popolazione il loro controllo diretto si riduce al 12 per cento, ma le aree rurali possono essere ben sfruttate per la coltivazione dell’oppio. Secondo il Sigar, queste aree sono aumentate dell’87 per cento solo nell’ultimo anno e il narcotraffico è la maggior fonte di finanziamento per i Talebani. Questi rimangono tuttora i maggiori oppositori del governo centrale e delle forze di intervento statunitense, nel frattempo aumentate a circa 14mila unità rispetto alle precedenti 10mila.
Come inizialmente scritto, al Qaeda è ancora ben presente nel Paese, con una strategia di collaborazione con i Talebani e altri gruppi jihadisti, compreso Isis. Al suo interno sta assumendo un ruolo sempre più importante uno dei venti figli di bin Laden, Hamza, che si è affiancato all’attuale leader, al-Zawahiri. Quest’ultimo sembra essere riparato in Pakistan, le cui aree tribali al confine con l’Afghanistan costituiscono da anni un sicuro rifugio per i movimenti islamisti operanti nei due Paesi.
Da un paio di anni anche l’Isis si è stabilita nel Paese, con il controllo di aree limitate e rapporti non facili con le altre organizzazioni. Ciò non impedisce una sua attiva partecipazione ad atti di terrorismo e il suo estremismo rende, dall’altro lato, più accettabile i “moderati” Talebani agli occhi di una parte degli afghani.
L’Afghanistan presenta alcuni aspetti analoghi alla situazione in Siria: anche qui vi è una divisione tra sunniti e sciiti e tra diverse etnie, la maggioritaria pashtun, dominante all’interno dei Talebani, e le minoranze tagiche, uzbeche e hazara. Il Pakistan, con il suo ambiguo sostegno ai Talebani, richiama il ruolo giocato in Siria dalla Turchia, mentre l’Iran appoggia anche qui la minoranza sciita, gli hazara. Anche in Afghanistan vi è poi un confronto, sia pure meno diretto, tra Stati Uniti e Russia, i primi a sostegno del governo, a differenza di quanto fanno in Siria, i secondi con buoni rapporti con Kabul, ma anche con i Talebani. La Russia considera l’Isis il pericolo principale per tutta la regione, la Russia stessa e le limitrofe repubbliche dell’Asia Centrale, mentre i Talebani sono ritenuti, tutto sommato, un problema degli afghani e degli americani.
Come già sperimentato dai russi nella loro decennale guerra degli anni ’80, anche gli americani, che sostennero allora i Talebani, stanno giungendo alla conclusione che dopo 16 anni di guerra difficilmente riusciranno ad ottenere la vittoria. Si sta diffondendo l’opinione che i Talebani siano troppo deboli per vincere, ma troppo forti per essere sconfitti e si riapre così la prospettiva di un possibile accordo tra loro e il governo. Su questa ipotesi Mosca ha già intrapreso una serie di incontri con i Paesi coinvolti, con l’assenza tuttavia di Washington. Il mese scorso, il presidente afghano, Ashraf Ghani, si è detto disposto a iniziare colloqui di pace con i Talebani, senza porre precondizioni. Una posizione condivisa dagli Stati Uniti, come dichiarato dal segretario alla Difesa Jim Mattis durante una sua recente visita a Kabul.
I Talebani non hanno dato risposta alla proposta, ma in passato hanno dichiarato di voler trattare direttamente con Washington, ritenendo non legittimo il governo di Kabul. Una richiesta che è stata rifiutata dagli americani, che sperano di portare almeno una parte dei ribelli alle trattative, contando sulle divisioni interne dei Talebani. Non sembra un gran risultato, ma c’è da sperare che sia quanto meno un inizio per porre fine a questa infinita guerra.