Purtroppo non c’era nulla d’imprevedibile nell’attacco terroristico a Trèbes, in Francia. Si sapeva che le sconfitte dell’Isis in Siria e in Iraq avrebbero sempre più riportato l’organizzazione alle sue origini terroristiche, così che ai rovesci in Medio Oriente corrispondono in Europa più, e non meno, attentati. Si sapeva che l’Isis predilige, rispetto alle grandi operazioni di al Qaeda, attentati compiuti da una sola persona o piccoli gruppi. Si sapeva che l’Isis impedisce qualunque prevenzione, perché colpisce di rado obiettivi “sensibili” — ambasciate americane o israeliane, palazzi del governo, monumenti —, ma attacca dovunque, così che ogni remoto paesino dove ci siano infedeli da uccidere diventa un possibile obiettivo.



Esistono ormai studi approfonditi su reclutamento, tattiche e strategie dell’Isis e perfino sulla sua estetica. E anche sul perché strategie di polizia che si concentrino sulla protezione dei possibili obiettivi degli attentati anziché sui potenziali attentatori falliscono regolarmente. L’attentato di Trèbes mostra che in Francia questa lezione non è stata correttamente assimilata, da due punti di vista.



Il killer era noto ai servizi segreti francesi e visibile per i suoi proclami violenti su internet. Nonostante questo, ha potuto colpire, segno che non era stato fermato con provvedimenti cautelari e non era sorvegliato. È una Caporetto per la polizia e i servizi francesi, e non è la prima volta che succede.

Un attentato potrebbe colpire l’Italia domani, perché nessuna strategia di prevenzione funziona al cento per cento, ma sarebbe sempre uno negli ultimi venticinque anni contro centinaia in Francia, Belgio, Spagna, Germania e Regno Unito. Mentre qualche complottista pensa che l’Italia sia immune da attentati in forza di chissà quali accordi con i terroristi — che erano possibili, e funzionarono, all’epoca del terrorismo laico di Arafat, inconcepibili all’epoca del terrorismo religioso dell’Isis —, gli specialisti sanno bene che è il metodo delle nostre forze dell’ordine che funziona ed è un modello studiatissimo negli Stati Uniti e altrove. Con poca elettronica e molto consumo di scarpe, le nostre forze di polizia — che, va detto, contano anche su un numero di agenti superiore a quello di altri Paesi, con costi per i contribuenti, ma vantaggi per la sicurezza — controllano il territorio, usano infiltrati, raccolgono tutte le chiacchiere nei bar e nei negozietti frequentati dagli immigrati. Sorvegliano anche internet, ma non solo. I potenziali terroristi, se non sono cittadini italiani, sono rapidamente espulsi. Sembra una banalità, ma il metodo italiano funziona.



Secondo: con origini nell’arroganza di Sarkozy, di cui ora emergono anche i lati oscuri e criminali, ma con poche modifiche da parte dei successori, la Francia pensa di prevenire il terrorismo con un’offerta d’integrazione che è in realtà un’assimilazione. I musulmani sono invitati a integrarsi come singoli, non come comunità. Le campagne contro il velo e perfino contro i costumi da bagno islamici per le donne sono percepite dalla comunità islamica per quello che sono: un invito a integrarsi rinunciando alla propria identità, per di più fasullo, perché i musulmani praticanti — da non confondersi con gli arabi e i nordafricani che non praticano più la loro religione — sono poi discriminati nel lavoro e nelle carriere. Questa politica è fallita.

Anche qui il modello italiano non è certamente perfetto, ma da noi ci sono molti passi in più verso il riconoscimento dell’islam come comunità, senza rigidità inutili sul velo o sull’alimentazione dei bambini nelle mense scolastiche. Funziona, e una grande mano la dà la Chiesa cattolica che, aiutando decine di migliaia d’immigrati musulmani senza chiedere loro di convertirsi, smonta sul nascere le narrative dell’Isis secondo cui i “crociati” occidentali odiano l’islam.