E’ improprio definirla una battaglia, quella che si è consumata ieri sul confine tra Gaza ed Israele. Da una parte 20mila palestinesi che partecipavano, dentro Gaza, all’inizio della Marcia del ritorno; dall’altra parte, in territorio israeliano, centinaia di soldati e decine di carri armati pronti a sparare. Ed è stato un facile e triste tiro al bersaglio contro coloro che si avvicinavano ai reticolati del confine. Un bilancio non ancora definitivo parla di 14 morti e 1200 feriti. I dimostranti palestinesi non hanno sparato e neppure i miliziani di Hamas che avevano organizzato la protesta, per ricordare un’altra strage. Quella che si era consumata il 30 marzo 1976, in territorio israeliano, in Galilea. I numeri di allora furono sei morti e centinaia di feriti, tra i dimostranti palestinesi scesi in strada per protestare contro il piano di esproprio di loro terreni, dove costruire in Galilea nuove colonie ebraiche. La memoria di quella strage compiuta dalla polizia israeliana ha dato vita alla Giornata della terra, che ormai da 42 anni viene commemorata in Israele dal milione e mezzo di cittadini israelo-palestinesi, in Cisgiordania e a Gaza, in molte nazioni dove sono presenti le  comunità palestinesi.



Nei trascorsi 42 anni non sono mancati altri incidenti e vittime. Questa volta l’annunciata Marcia lungo il confine di Gaza, organizzata da Hamas, aveva preoccupato più del solito le autorità militari israeliane. Una cosa infatti è bombardare dal cielo gli “obiettivi” militari del nemico, o scovare e “annientare” singoli terroristi armati, ben altra cosa è fronteggiare migliaia di manifestanti disarmati. In questi casi le armi dovrebbero cedere il passo al confronto politico e al diverso uso della forza, prudente e razionale. Non è stato così nel 1976 e neppure il 30 marzo 2018. 



Ora a Gaza e negli altri territori palestinesi si rende omaggio ai nuovi martiri e le divisioni tra i politici palestinesi verranno per qualche tempo messe a tacere. Il dialogo tra Fatah ed Hamas procede a singhiozzo ed ha toccato un punto assai basso con l’attentato del 13 marzo scorso al convoglio del primo ministro palestinese (esponente di Fatah) in visita a Gaza. Rami Hamdallah è rimasto illeso, ma i contraccolpi politici rimangono. 

Tuttavia, è lo scenario internazionale a rendere le divisioni tra i palestinesi meno importanti. Il disprezzo di Trump verso i leader palestinesi, le sue scelte su Gerusalemme, il crescente ruolo di personaggi americani totalmente filo-Netanyahu, dall’ambasciatore in Israele David Friedman al neoconsigliere di Trump per la sicurezza nazionale John R. Bolton, rendono la situazione politica per tutti i dirigenti palestinesi altamente drammatica. Lo sa Abu Mazen e lo sa Ismail Haniyeh. Anche  per questo il destino di Gerusalemme rimane al bivio tra una strada che porti alla trattativa ed un’altra che conduca ad un conflitto ancora più violento tra palestinesi ed israeliani.