Here we go again: ecco il grido che si ode mentre un nuovo sistema internazionale completamente nuovo rispetto a quello che non si è costituito dopo il crollo dell’Urss sta lentamente prendendo forma. E questa ricostruzione percorre insieme strade già ben delineate e altresì strade mai percorse sinora e piene di pericoli. Per il grande Mackinde (The Geographical Pivot of History, in “The Geographical Journal”, Vol. XXIII, n. 4, aprile 1904) la sfida storicamente più profonda nel costruirsi del sistema internazionale era quella ch’era venuta all’Europa mediterranea dall’Asia Centrale, più precisamente da ciò che definiva lo Heartland, là dove le masse euro-asiatiche erano e sono secolarmente concentrate. In questo contesto è quasi naturale che Mackinde (e con lui il troppo dimenticato Nicholas Spykman di American Strategy in World Politics, Brace and Company, Harcourt, 1942) ci aiuti, oggi, a percorrere un nuovo cammino, in un momento in cui l’Occidente non ha più una politica egemonica e quindi una concezione unitaria delle politiche internazionali.



L’unipolarismo nordamericano degli anni Ottanta e Novanta del Novecento e del primo ventennio del nuovo millennio (su cui David Calleo ha scritto pagine insuperabili in Follies of Power: America’s Unipolar Fantasy, Cambridge University Press, Cambridge, 2009) ha avuto l’effetto di aumentare enormemente i gradi di differenziazione e i cleavages del sistema internazionale, non di ridurli come i semplicioni si immaginavano sostenendo appunto un sistema unipolare. Continuano invece a esistere divisioni imperiali (in primis quelle francesi e inglesi rispetto alla dominante narrazione statunitense). E inoltre le crescenti divisioni in quel plesso decisivo nella storia mondiale che era ed è il Rimland, “l’inner crescent”, ossia quelle zone costiere che tutto l’Heartland circondano e che sono il prodotto dello sviluppo continuo degli spazi terrestri, piuttosto che il frutto di pressioni esterne troppo intermittenti per segnare il solco del campo della storia. Sono gli Stati del Golfo Persico e del Sudest asiatico, sino a giungere a quelli del Mar Cinese Meridionale. Chi comanda il Rimland comanda l’Eurasia e chi comanda l’Eurasia comanda il mondo, comanda il Pianeta.



Ma la struttura dell’Eurasia è tremendamente mutata di recente, ossia negli ultimi due secoli, per il trasformarsi dei princìpi funzionali dello spazio geopolitico nelle sue mutue complementarietà dettate dagli insediamenti statali cresciuti via via in potenza. La Cina e l’India ne sono i fattori determinanti e la Cina quello più potenzialmente distruttore (un dominio senza egemonia), alla pari di ciò che furono la Francia napoleonica e la Germania guglielmina e le orde mongolico-tartare, con un impero tanto esteso quanto fragile e breve. E non parliamo della Germania nazista.



Secondo le teorie mackinderiane, le tre sfere dell’Eurasia, ossia l’Europa Centrale, il Caucaso e l’Asia Centrale, vengono così a comporsi un nuovo e inaudito – per intensità demografica e tecnica – spazio di potenza e di possibile disgregazione. La minaccia atomica, a cui solo recentemente si fa cenno, con le insorgenze nordcoreana e iraniana, completa l’allarmante quadro che emerge con sempre più forza dalla profondità della storia geopolitica del mondo.

E parliamo ora dei mutamenti contemporanei, in corso sotto i nostri occhi. L’Asia Centrale rimane il pivot, ma le zone costiere sia dell’India che della Cina contengono in sé un cambiamento di potenza perché cambiano struttura le interconnessioni che legano i punti di snodo del sistema internazionale. E questo perché il punto di caduta di tale sistema si sposta dal Caucaso Centrale alla stessa Europa Centrale sotto la pressione che sale dalle regioni dell’Asia Centrale e da potenze tanto marittime quanto terrestri. Il ruolo di potenza nordamericano non poteva non mutare. Per certi versi si è atteso anche troppo. 

Here we go again! In questo contesto perché si ode ovunque nel mondo questo grido? La risposta sta in quel segreto che tanti anni or sono Paul Dibb disvelò scrivendo forse la più intelligente storia dell’Urss che sia mai stata scritta (The Soviet Union: The Incomplete Superpower, University of Illinois Press, 1996). Ossia che esistono grandi potenze incompiute. Che ricercare la fisionomia di potenza di una nazione non può essere il frutto dell’applicazione di un modellino astratto come capita troppe volte nella disciplina delle relazioni internazionali. Il sistema internazionale è un sistema vivente, non è quello funzionalista descritto penosamente da Robert Gilpin, ma quello, invece, umanisticamente compreso da Raymond Aron. E quindi nulla è mai scritto meccanicamente nella storia. Può esserlo, meccanica, la storiografia; mai la storia, frutto crocianamente inteso dello Spirito.

L’Urss era una potenza incompiuta poiché al suo potenziale militare non corrispondeva affatto un altrettanto solido vasto poliforme sistema economico e fu questa incompiutezza che, con la guerra afgana, portò quella nazione dittatoriale in forma non capitalista, alla caduta. Oggi è ciò che capita alla Cina, ma in senso inverso: alla sua potenza demografica e anche economica, non corrisponde un’altrettanta dispiegata potenza militare e questo spiega come la sua storia nazionale e internazionale sia sempre stata caratterizzata da continui balzi in avanti, sempre disastrosi, dalla collettivizzazione forzata delle terre degli anni Cinquanta del Novecento sino alla “rivoluzione culturale”, per giungere ora al neo-maoismo di Xi Jinping che è l’ultima trasformazione del costrutto sociale cinese.

Ma la Cina, a differenza della Russia, sia essa non capitalistica oppure neocapitalista come quella di oggi, non può essere il protagonista di quell’instabile equilibrio di potenza che è l’essenza stessa del sistema internazionale. Ma se non vi è l’equilibrio di potenza si scatena la guerra civile internazionale, non c’è via di mezzo. Orbene, un polo che ha garantito questa assenza di guerra civile è stato quello statunitense. Gli Usa hanno esportato sicurezza e crescita economica nel corso di circa quarant’anni: quelli della Guerra fredda con l’Urss. L’impegno nordamericano seguiva il tracciato dello scontro e insieme dell’equilibrio instabile di potenza: era l’effetto del terrore atomico, della possibile guerra nucleare. La partita in gioco era chiara ed ebbe i suoi riflessi profondi in Europa: la divisione della Germania accettata e fondata sul ruolo della Nato e sul disarmo tedesco, mentre le due altre potenze nucleari, il Regno Unito e la Francia, perseguivano i fini di potenza nazionale in un rapporto sempre critico con gli Usa. Rapporto che si è ancora di più incrinato tra Usa e Germania dopo le guerre mesopotamiche dell’inizio del secondo millennio, in cui gli Usa sono stati lasciati soli dall’Europa e dopo le frodi tedesche sul diesel, che hanno ancor più peggiorato i rapporti interstatuali.

Ecco aprirsi un vuoto nel sistema di potenza internazionale. Questo vuoto è inevitabilmente ricoperto dalla Russia, perché, come prima si è detto, la Russia è l’unica nazione a poter governare l’Heartland e a profondamente influenzare il Rimland. Tutti i tentativi di porre in discussione questo ruolo della Russia sono destinati all’insuccesso.

La “guerra di spie” oggi in corso, con Lavrov che risponde al dilagare dell’attacco Usa e Uk contro la Russia, non è che la dimostrazione di ciò. Ed è altresì la dimostrazione dell’ancora dilagante ruolo egemonico che hanno gli Usa, Trump o non Trump, al di là di quanto questa guerra di spie non sia orchestrata dal deep state Usa contro Trump stesso, che continua sempre più, con la cacciata del grande McMaster e di Tillerson, a dimostrarsi estraneo al blocco di comando finanziario Usa. Esso che è una potenza quasi illimitata di condizionamento strategico nel lungo periodo ed è indipendente dalla “democrazia elettorale”.

Ciò che conta è che il ruolo di potenza Usa, nonostante le interne divisioni dell’establishment, rimane. Ma questa egemonia nordamericana non fa che aumentare il ruolo della Russia, non lo diminuisce affatto. Ecco la prova della mia tesi: il treno blindato nordcoreano. Kim Jong-un è giunto a Pechino su un treno blindato, accompagnato dalla sua affascinante moglie, per incontrarsi con il capo del Partito comunista cinese Xi Jinping. Un evento eccezionale, anche perché, a differenza di quanto si crede, i rapporti tra queste due nazioni, così differenti per peso demografico e potenza economica e militare, erano quasi inesistenti. Pochi ricordano che il nonno di Kim, il primo dittatore della Corea del Nord, era un funzionario dell’Internazionale Comunista, formatosi all’Hotel Lux a Mosca, e ancora in meno ricordano che fu la Corea del Nord a invadere la Corea del Sud, sorprendendo gli americani che dovettero precipitosamente impegnare le loro truppe, guidate dal generale MacArthur, e respingere i coreani-sovietici oltre il 38° parallelo. Vladivostok, del resto, è un porto del Pacifico sovietico, a pochi chilometri dal confine con la Corea del Nord. Quest’ultima era stata intesa da Stalin come una costante minaccia nei confronti della Cina di Mao. Quel Mao che non andò mai d’accordo con i sovietici e che, con il fido Ciu En-Lai, firmò, nella metà degli anni Settanta del Novecento, un rivoluzionario accordo con gli Usa (guidati dal Presidente Richard Nixon e dal geniale segretario di stato Henry Kissinger). Si sanciva la rottura del mondo comunista e si apriva un nuovo corso nella storia mondiale. 

Un corso che oggi è giunto alla sua acme con Xi Jinping a capo di una nazione che senza dubbio alcuno sta muovendo alla conquista, anche militare, del mondo. Proprio perché vuole la conquista del mondo, deve farlo usando il bastone e la carota. Il bastone è nelle violazioni delle acque territoriali degli altri stati marittimi del Mar Cinese Meridionale e nei 30mila soldati cinesi acquartierati nel porto di Gibuti a minacciare i giacimenti petroliferi del Golfo e la rotta che va verso l’Europa, passando per il testé raddoppiato canale di Suez. La carota è il comportarsi a intermittenza come un leader alla ricerca di una entente cordiale consentendo quindi ai cinesi di apparire come un elemento di pacificazione. In questo modo il piccolo Kim raggiunge il suo scopo di entrare finalmente a far parte del consesso internazionale dopo aver lanciato un po’ di fuochi d’artificio che hanno consentito a Trump di fare la voce grossa e ai cinesi, pensate un po’, di stendere un velo che nasconda la loro terribile volontà di potenza. 

A parer mio, dietro il piccolo Kim, c’è ancora e sempre la Russia del suo vecchio nonno, che certo non è più comunista, ma che rimane una grande potenza che bagna i suoi piedi uno nel Mediterraneo, l’altro nell’Oceano Pacifico. Lo scenario internazionale in tal modo si complica, ma nello stesso modo si chiarifica. La crisi nordcoreana ha spinto infatti tutti gli attori della scena mondiale a scoprire le loro carte. I cinesi si candidano a governare il mondo in competizione con gli Stati Uniti. I russi, dal canto loro, non perdono l’occasione per rivendicare di essere invece loro a spartirsi con gli Usa il potere mondiale, ben decisi a far figurare la Cina come terzo incomodo, ricordandole, per esempio, che l’unica portaerei che possiede è la vecchia Kusnestof da essi dismessa, esacerbando ogni volta che fa loro piacere il criceto nordcoreano a cui distribuiscono, quando vogliono, dei petardi iraniani. 

Gli Stati Uniti stanno solo ora uscendo da quella brutta illusione dell’unipolarismo in cui l’avevano cacciata le tre famiglie più disastrose della storia americana (i Bush, i Clinton e gli Obama) e con Trump non sanno scegliere se rinverdire il realismo kissingeriano o produrre una nuova volontà di potenza dai toni ossessivamente nazionalistici, inconsueti per un establishment nordamericano che non si riconosce nel suo nuovo presidente e che quindi vien via via decimato. Una scenografia internazionale grandiosa e tragica insieme. Tragica anche perché sul palcoscenico non c’è nessun attore che interpreta il ruolo dell’Europa, gigante economico, nano politico, e autistico personaggio in cerca pirandellianamente di un autore. 

Perché questo accade? La risposta è nella storia. L’Europa di oggi, di questa Unione europea, se trova un autore lo trova solo come continente in cui è presente di nuovo, dopo più di mezzo secolo, una Germania unificata. Visto lo squilibrio di potenza economico tra essa e tutte le altre nazioni, anche la Francia, l’emergere sulla scena internazionale dell’Europa, ripeto di questa Europa sbilanciata, significherebbe l’affermazione della potenza tedesca. E la potenza internazionale trascinerebbe dietro di sé inevitabilmente la potenza militare. È di questo che tutto il mondo ha paura, ed è per questo che l’Europa è destinata a rimanere senza un autore.