Nonostante sia sotto accusa per la sua capacità inquinante e malgrado la violenta caduta del suo prezzo, il petrolio continua ad essere centrale per l’economia e per la geopolitica, insieme al meno inquinante gas naturale. Lo stesso crollo dei prezzi sta provocando serie conseguenze non solo economiche, bensì anche geopolitiche, spostando i rapporti di forza tra gli Stati produttori. Un esempio è dato dal Venezuela, il cui bilancio dipende quasi esclusivamente dall’esportazione di petrolio. Con il prezzo a più di 100 dollari a barile, il regime di sinistra che governa il Paese poteva esercitare la propria influenza su vari Stati della regione, utilizzando l’esportazione del petrolio a prezzi politici. Questa strategia, in funzione essenzialmente antiamericana, non è più possibile con il petrolio attorno ai 60 dollari al barile e il conseguente collasso dell’economia venezuelana. Ciò ha portato a una situazione politica di estrema tensione che, secondo molti osservatori, potrebbe portare addirittura a una guerra civile.



La caduta dei prezzi ha colpito anche i due maggiori produttori, Arabia Saudita e Russia. Quest’ultima sembra resistere alla crisi, pur con notevoli costi, e sta utilizzando sempre di più petrolio e gas in funzione geopolitica. Un chiaro esempio è il raddoppio del gasdotto sotto il Mare del Nord, che coinvolge società petrolifere tedesche, francesi, olandesi e austriache. Questo malgrado le sanzioni contro Mosca per la questione ucraina e proprio l’Ucraina sarà maggiormente danneggiata dal Nord Stream 2 con la perdita delle royalties sui gasdotti che attraversano attualmente il Paese. L’Arabia Saudita ha dovuto ricorrere alle sue notevoli riserve finanziarie per fronteggiare la crisi e ha deciso di mettere sul mercato una quota dell’Aramco, la società petrolifera di Stato, una decisione impensabile fino a poco tempo fa. Inoltre, sta varando un ambizioso piano economico per rendersi meno dipendente dagli idrocarburi.



Anche la tecnologia ha contribuito al mantenimento del ruolo geopolitico del petrolio, grazie al gas di scisto, sviluppato soprattutto negli Stati Uniti, che negli ultimi anni hanno quasi raddoppiato la produzione, diventando il terzo produttore mondiale. Il petrolio ha così fornito a Washington un altro strumento geopolitico, rafforzato dalla notevole flessibilità di produzione dello shale oil, che contrasta la rigidità degli investimenti tradizionali del settore. Questa nuova situazione sta indebolendo il dominio decennale dell’Opec sul mercato. Tuttavia, nonostante siano diventati diretti concorrenti dell’Arabia Saudita, gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro alleanza con i sauditi in funzione antirussa e per impedire un ritorno in forze sul mercato di un pericoloso concorrente come l’Iran. Una possibilità resa concreta dall’accordo di Obama con Teheran sul nucleare, non a caso contestato da Trump. Anche l’Iraq dipende quasi esclusivamente dal petrolio e anche qui stanno emergendo problemi derivanti dalle divisioni interne. Nel loro processo verso una completa indipendenza del Kurdistan, i curdi stanno rivendicando il pieno sfruttamento dei campi petroliferi della zona. Questa pretesa si scontra con la netta opposizione degli iracheni arabi, sia sunniti che sciiti, e inserisce un nuovo elemento di scontro tra Stati Uniti, Russia, Turchia e Iraq.



Petrolio e gas si uniscono a questioni di predominio politico anche nello scontro tra Stati del Golfo e Qatar. Il Qatar sunnita, sostenuto dalla Turchia e osteggiato dall’Egitto per il suo appoggio alla Fratellanza musulmana, è in buoni rapporti anche con l’Iran sciita, nemico dichiarato dell’Arabia Saudita. La ragione principale della collaborazione tra Doha e Teheran è appunto lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini ai confini tra i due Stati. Da parte sua, l’Egitto sta sempre più intervenendo in Libia, che dopo l’attacco anglo-francese è caduta in un caos molto preoccupante per il Cairo. Non bisogna dimenticare però che la Libia è un produttore di petrolio e i livelli di produzione sono in via di recupero, pur ancora circa la metà di quelli precedenti la caduta di Gheddafi. Un elemento di ulteriore interesse per il Cairo, anche se i suoi bisogni energetici saranno in parte colmati dal pieno sfruttamento di Zohr, il giacimento di gas naturale scoperto dall’Eni, finora il più grande nel Mediterraneo.

Il Mediterraneo sta diventando infatti un nuovo fronte di scontro attorno agli idrocarburi, come evidenziato anche dalla recente vicenda dell’Eni a Cipro. L’isola è da decenni divisa tra la parte greca, la Repubblica di Cipro riconosciuta internazionalmente e membro dell’Unione Europea, e la autoproclamata Repubblica Turca di Cipro, occupata militarmente dai turchi e riconosciuta solo dalla Turchia. Ankara si oppone a ogni sfruttamento dei giacimenti che, secondo il diritto internazionale, spettano alla Repubblica cipriota e ha pertanto bloccato manu militari la Saipem 12000, la piattaforma che doveva compiere operazioni di esplorazione per conto dell’Eni. Di fronte alle minacce della marina militare turca, la piattaforma è stata dirottata altrove. La Turchia è membro della Nato e ancora, almeno ufficialmente, candidata ad entrare nella Ue.

Un altro fronte di scontro nel Mediterraneo, ancora più pericoloso, è quello che divide Israele e Libano – anche Hamas è nel gioco – per lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini di gas Leviathan e Tamar, i più ricchi nel Mediterraneo prima della scoperta di Zohr nelle acque egiziane. Un’area che non ha certo bisogno dell’oro nero per surriscaldarsi.